di Bo Summer’s twitter@fabiogalli61
Bo Summer’s,
se l’animo si potesse catalogare, se la gioia quotidiana fosse piuma
… se l’animo si potesse catalogare, se la gioia quotidiana fosse piuma… non vorrei disturbare alcuno e posso appena osservare.
È la tua domanda sull’Angelo – sul tuo Angelo – che m’infuoca e che mi fugge il sangue: io non sono un critico letterario, io posso soltanto darti alcuni strati del reale evocamento di felicità che mi ha provocato il gesto del tuo dono: quel libro mi è caro, è un’ambra creaturale, un concentrato ben avvertito e un gradito annunzio. E la tua lettera è una buona incisione, un’impressione di levità e gentilezza (non ne conosco abitudine): essa è come una notte d’aprile, assolutamente definitiva a sostituire il silenzio invernale.
Da molti anni non scrivo più. Non più a nessuno. Per te un’eccezione che mi piacerebbe divenisse regola, un forzato usciolo della mia casa mentale.
Grazie per il tuo Stevens [mi riferivo alla traduzione di Aforismi e prose di Wallace Stevens pubblicata da Ripostes], sperando che il mio Verlaine[si trattava di una mia piccola plaquette, una ingombrante versione di Melancholia edita per i tipi bresciani di L’Obliquo edizioni] ti arrivi.
[penso fosse sett/ott 1993]
… dalle labbra una cara origine: la non riuscita rinuncia ad ogni cosa: tuttavia l’orgoglio regge: stordisce piuttosto.
Ti ho promessa questa lettera, questa non buona natura: tutto non è innocente, l’avvelenata realtà redime al poco sapere e io, nulla conoscendo, sogno brandendo i miei occhi quale arma – una grazia, una medicina per la mente, un dormire del pensamento – guardare. Bianca, la tela della mente, redige così un mondo nuovo, dove nembi pendono e buonissime poche figure ci procedono verso la guarigione e precederle, queste figurazioni, già annunciano il niente: SEMPRE A TESTA BASSA!
Rimpiango le veglie immutate – nel caso esistano tuttora – e perciò: paradiso o inferno, cosa sarebbe se le tracce, le nostre tracce, restassero nel loro mattino?, non crescessero?
E faccio un’altra domanda: prima ancora del nostro passare chi – DICO: CHI – è passato?
con occhio chiaro non muto le veglie, attento lo sguardo: il riconoscimento è una regale mano, caro.
[ottobre ’93]
… certo, le cose non vanno “male” ma ci vorrebbe qualche cosa di imprevedibile: il non scoperto: il senza limite: l’occasione dell’anormale: la pur minima occasione. Ecco, questo ci vorrebbe.
E non ci vorrebbero confessioni, e non ci vorrebbero avventure, e non ci vorrebbero mirabili imprese.
Non badare – è preghiera – ai miei ritardi nel risponderti ma occorre sostituire ogni pensamento con un altro meno indegno… basta, ora.
Che sarebbe se realmente ti dicessi – in tutta la mia voce – l’imbarazzo che ormai mi procura questa redazione in cui lavoro. È un mormorio bestiale, il mio, un fondo di paginetta: un moltiplicarsi di nubi a stare ancora qui… ah ma non ci resterò ancora per molto tempo!
Mi repelle.
Nulla ci è contrario, solo i nostri intendimenti lo sono.
Ogni vero tratto è una reale demarcazione della nostra debolezza e del Mondo… ma non si va l’oltre l’aspetto del Mondo (e della nostra debolezza): qui è spargere ogni pura conseguenza, ogno “costruire”: è un risultato assurdo, come una inferocita nebbiolina.
I visitatori stanno alle parole e non alle occhio: ascoltano e non vedono. Quale pensiero è davvero quadro di tela: quale superficie da riempire è un pensamento? e quale servigio punisce a meraviglia?
Restare ancora da questo editorucolo a lavorare o andarmene?
Attenuata la sorgete, in minor forma, che ci sto ancora a fare qui?
Alto al visibile s’attende il partire vermiglio: la marcia di cattura ove “batteva il sole di mezzogiorno. La morte” cruda e oro, l’intendimento al solco: così appare scoperto ogni rimorso, una bestia affamata. Una pura bestemmia. Il vetro è specchio d’ogni offerta al lume, a quel succo di terreno inanime e prono.
Ora niente più: colpire la buona ventura.
Andarmene.
Tranquillità del sonno ci raggiunge. E mi raggiungerà. È un’argentea lucidità, una tregua. Causa del freddo. Ma assolutamente cheto, sono. Fuori di qui si respira, alfine.
Una inabitata coscienza riserba le apparenze: all’Angelo le strette di mano? speranza e riguardo: causa di soccorrimento.
Ma ecco che adesso il sottile terrore minaccia, poco alla volta. Sparirò davvero. Non è ancora finita la nostra diabolica presenza: è la parola finale del bosco. Certe fiamme alzano, a questo Mondo, lo stato di miseria e il silenzio cattivo.
Se misurassimo ogni nostra necessità quale afflitta immagine di noi stessi. Ma qualcuno non ha più occhi profondamente incassati.
Gesti e pensamenti in accordo dovremmo avere, con lo sguardo come se volessimo affascinarci con un pezzetto di specchio… ben disposti a questi eventi.
Andarsene e mollare tutto. Non scrivere mai più.
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