#Visti per voi L’enigma dell’amore. Il vacuo dilettantismo di uno spettacolo inesistente

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Enigma dell'Amore 00di Alessandro Paesano

Karl Heinrich Ulrichs (1825 -1891) è un giurista tedesco che, probabilmente in seguito a un arresto in quanto omosessuale (un reato penale per le leggi dell’epoca), abbandona la carriera professionale e si mette a studiare l’omosessualità proponendo una teoria medica sulla sua origine per sganciarla dall’ambito della moralità e iscriverla a quella della natura umana.

Ulrichs descrisse l’omosessualità maschile nei termini di un’anima muliebris virili corpore inclusa (anima femminile rinchiusa in un corpo maschile) una sorta di terzo sesso che abbina le caratteristiche fisiche maschili a una psiche (Ulrichs parla di anima) femminile. Ulrichs chiama questi uomini uranisti (urning) mutuando il termine dalla Venere Urania indicata da Platone nel suo Simposio come dea che veglia sugli amori omosessuali maschili.
L’uranista è, secondo Ulrichs, un uomo la cui anima femminile lo spinge a desiderare il maschio virile invece della donna. Simmetricamente la donna uranista, avendo un’anima maschile in un corpo femminile, desidererà la femmina piuttosto che il maschio.

L’uranista è dunque il maschio effeminato che cerca il maschio virile.

Un errore concettuale che, già all’epoca, gli vedrà opporsi lo scrittore Károly Mária Kertbeny (1824-1882) che, non riconoscendosi in questa definizione terzosessista, propose una parola alternativa per indicare le persone che amano persone dello stesso sesso, un neologismo che utilizziamo ancora oggi: omosessuale parola della quale Ulrichs fu detrattore criticandone l’etimo spurio, il neologismo essendo costruito su un termine greco e uno latino.

Poco importa, oggi, che Ulrichs confuse l’identità di genere (l’essere maschio o femmina) con l’orientamento sessuale (di chi mi innamoro con chi faccio sesso) ascrivendo al maschile l’esclusiva attrazione per la femmina e viceversa, vedendo nell’omosessuale una femmina nel corpo di un uomo mentre oggi si è maschi virili anche quando si desiderano persone dello stesso sesso.

Con questa spiegazione medica (per quanto possa sembrarci strano all’epoca era così) Urlichs cercava di sottrarre l’omosessualità alla sfera della morale riconoscendole una legittima naturalità accanto all’eterosessualità che la avrebbe depenalizzata perché non si può trovare colpa in una indole innata (il che spiega, per esempio, perché ancora oggi si cerchi con tanta ostinazione una causa genetica dell’omosessualità, oppure si cerchi di dimostrare le differenze fisiche tra il cervello di una persona omosessuale e quello di una etero).

Per questo motivo Ulrichs viene ricordato come uno degli antesignani delle lotte per la legittimazione e la difesa dell’omosessualità che affrontò da solo in un periodo in cui la società non era ancora pronta, rappresentando un capitolo poco conosciuto della storia del movimento di liberazione lgbt (la t di transessuale non meravigli: la definizione di uranista ricorda da vicino certe prime descrizioni del fenomeno trans) degno di essere raccontato anche in uno spettacolo teatrale trovando una chiave drammaturgica adatta a farne non un documentario ma un racconto da mettere in scena.

Purtroppo lo spettacolo di Fabio Grossi e Saverio Aversa, L’enigma dell’amore, con il sottotitolo in memoria di Karl Heinrich Ulrichs in scena fino domenica 18 al Piccolo Eliseo di Roma si infrange contro gli scogli della Storia e della drammaturgia incapace com’è di raccontare l’una o allestire un racconto che possa dirsi davvero teatrale.

Aversa e Grossi si limitano a far raccontare in scena a Ulrichs (Fabio Pasquini) i suoi incontri coi maschi tanto amati a un giovane di bell’aspetto, che indossa – dio solo sa perché – una gonna plissettata calzandola ad altezza d’inguine, che lo affianca e si qualifica come angelo (Francesco Maccarinelli), in una narrazione avulsa da qualunque contesto storico senza fare riferimento alle sue teorie sulla psicologia uranista, limitandosi a uno sciorinare cronologico privo di un qualunque consistenza drammatica.

Nel ripercorre le vicissitudini della vita di Ulrichs Aversa e Grossi scelgono un punto di vista intimo e privato fiaccandone l’agire politico con un biografiamo omoerotico che spaccia una legittima attrazione erotica per amore, confondendo il sesso con i sentimenti e confermando la predominanza sessuale dell’orientamento omoerotico a discapito dell’aspetto sentimentale qui svilito a pura esaltazione del corpo del maschio giovane bello e desiderabile.

Un omoerotismo che si insinua pericolosamente anche nella tenerissima età sia quando Ulrichs ricorda il bacio che un suo professore gli diede quando aveva 14 anni, sia quando si accenna ad adolescenti al di sotto dell’età del consenso, come il tredicenne che un adulto ha cercato di sedurre (un adulto che Ulrichs vorrebbe difendere nel processo per omosessualità), mettendo sullo stesso piano il desiderio omoerotico tra adulti consenzienti con quello pederastico che, sebbene fosse molto diffuso all’epoca (quando anche le ragazze si sposavano giovanissime e già a quindici anni diventavano madri), accennato com’è senza alcuna puntualizzazione storica, tracima nel contemporaneo invitando il pubblico a indebiti parallelismi con la pedofilia.

Le rivendicazioni di Ulrichs sulla legittimità degli amori uranisti (che Aversa e Grossi chiamano, sbagliando, uraniani aggettivo col quale ci si riferisce piuttosto alla poesia omoerotica inglese dell’800 dedicata ai ragazzi adolescenti) rimangono velleitarie perché non servono a mettere in discussione la mentalità dell’epoca in cui furono fatte (cui lo spettacolo non si degna nemmeno di accennare) rimanendo troppo blande per la platea di oggi cui si rivolge, attestandosi su un generico vittimismo (che male faccio se amo un uomo come me?) che non affronta mai davvero lo stigma né quello di allora né quello di oggi.

Guardando al personaggio messo in scena e alla frustrazione con la quale racconta all’angelo il fallimento di ogni tentativo di vedere riconosciute le sue richieste di depenalizzazione dell’uranismo, o di difendere questo o quell’uomo arrestati in quanto omosessuali, non si capisce bene a quale pubblico Aversa e Grossi pensino di rivolgersi, se a un pubblico gay che quelle rivendicazioni conosce già o a un pubblico etero che in questa anima tormentata vedrà pericolosamente confermato il luogo comune che l’omosessuale è frustrato, infelice, insicuro, esistenzialmente non realizzato.Enigma dell'Amore 01

La messinscena si presenta con un palco completamente rivestito di teli di plastica trasparente, dove campeggiano un letto e un divano moderni anch’essi ricoperti di plastica.
Lo spettacolo si apre con Ulrichs e l’angelo che, dietro un sipario di plastica che non permette una visione del tutto nitida, si muovono nudi sulle note di una versione ipermoderna della canzonetta mozartiana Deh, vieni alla finestra (cui fa da pendant l’aria pucciniana Un bel dì vedremo del finale, altrettanto elettronica e pop) confermando il luogo comune che in uno spettacolo teatrale che parla di omosessualità maschile il nudo integrale (anche frontale) è un must.

Nelle pose che i due attori assumono in questo prologo c’è un chiaro quanto generico riferimento alle pose delle fotografie omoerotiche di fine ottocento non del tutto storicamente legittimato visto che la fotografia si diffonde a partire dalla seconda metà degli anni 80 mentre Ulrichs inizia a scrivere nel 1862.
Lo stesso vale anche per i video proiettati in scena, che alternano filmati d’epoca (se originali necessariamente tutti posteriori al 1890) a filmati nei quali Francesco Maccarinelli viene ritratto nei panni di uno dei tanti personaggi che Ulrichs incontra e ama, e che Maccarinelli riprende anche in scena, compreso un cameo video di Leo Gullotta che interpreta Nicolò Persichetti, che ospiterà Ulrichs negli ultimi anni della sua vita, in Italia..

L’enigma dell’amore non dà nemmeno la soddisfazione di potere dire che si tratta di un brutto spettacolo teatrale perché dello spettacolo teatrale non ha nulla: non la costruzione narrativa né tanto meno quella drammaturgia, né un’idea di messinscena che traduca se non le idee almeno i sentimenti e le emozioni in qualcosa da far fare ai due attori in scena, che si dimenano per un’ora scarsa come anime in pena non offrendo spunto alcuno di riflessione nemmeno nel finale, quando Maccarinelli, toltasi la gonna plissettata, procede nudo, le terga al pubblico, le spalle cinte della bandiera rainbow, verso una luce di quinta che abbacina la platea, mentre vengono proiettate immagini dei moderni pride in un didascalico e gratuito passaggio di testimone tra Ulrichs e il movimento di liberazione omosessuale contemporaneo.

Dispiace solo che operazioni come questa ricevano il patrocinio di associazioni culturali quali il Mario Mieli o siano programmate nell’ambito della settimana Rainbow patrocinata dal comune di Roma, perché costituiscono un ingiustificabile incidente di percorso fatto con un dilettantismo inaudito e nefasto tanto per il teatro quanto per la causa uranista.

Provare per credere.
Avete tempo fino a Domenica 18 maggio.

 

 

 

 

 

 

©alessandro paesano 2014
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