Short Theatre 9: non solo Insulti al Pubblico, anche Angela Baraldi

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indexdi Alessandro Paesano Twitter@ale_paesano

Quando va in scena per la prima volta nel 1966 Insulti al pubblico, esordio teatrale di Peter Handke l’impatto sul pubblico deve esser stato di notevole spiazzamento.

Il testo si incentra sul dispositivo teatrale dalla sua divisione tra platea e palcoscenico a quella tra attori, attrici e pubblico, tra testo e contesto e cerca di evidenziare e accentuare le contraddizioni intrinseche di un sistema di rappresentazione borghese (intendiamo il termine nella sua valenza sociologica più che politica) che culmina in una serie di insulti rivolti direttamente al pubblico venuto ad assistere alla rappresentazione.
Rivisto oggi nel bell’allestimento di Accademia degli Artefatti (che riprende in occasione della pubblicazione del teatro di Handke, assente nella nostra editoria da troppi anni, un lavoro presentato nel 2006) il testo appare in tutti i suoi limiti, non tanto quelli derivanti dallo scarto temporale, ma dal punto di vista politico dal quale Handke critica il dispositivo teatrale e il suo pubblico.
Gli insulti al pubblico non nascono infatti da una ragione etica o estetica quanto dalla aspirazione del suo autore di distinguersi, di andare controcorrente, di spiazzare la borghesia più per esercizio di stile che per un portato saldamente rivoluzionario. Ache il procvlama manifesto (quello gridato direttamente al pubblico tutto in negativo, “non assisterete a”, “questo spettacolo non è”…) vale più come proclama di per sé, nella su datità letteraria (e dunque teatrale) che come manifesto programmatico di un teatro, al quale Handke approderà in seguito per altri versanti.
Il testo nasce più dalla ricerca sperimentale di nuove forme teatrali che da una critica di grado zero al dispositivo teatrale.
Nonostante i due attori in scena, che sentiamo parlare tra di loro dietro il sipario chiuso mentre ragionano sulle reazioni del pubblico che attende loro vadano in scena, proclamano di non essere personaggi ma attori, di non seguire alcuna narrazione ma di appartenere allo stesso tempo e allo stesso luogo del pubblico, in realtà i due attori in scena sono squisitamente personaggi che raccontano una vicenda, cambiando solo modalità e contenuti ma non la struttura di comunicazione: nessuna collettivizzazione del testo o della performance visto che il pubblico viene relegato al suo classico ruolo di uditore nessuna analisi dei rapporti di produzione o, per esempio, nessuna riflessione sul concetto di verosimiglianza a teatro (che viene accennato nei ragionamenti dietro le quinte dei due attori-perosnaggi ma è risolta, e dissolta, nelle tre unità aristoteliche.
Se nel 1966 questo bastava a creare scandalo (nel senso letterale del termine) e a destabilizzare il pubblico borghese cui lo spettacolo si rivolge Insulti al pubblico oggi tradisce tutto l’elitarismo intellettuale di Handke che, sono parole sue, amava considerarsi un autore rinchiuso nella torre d’avorio.

Arcuri fa miracoli col testo alleggerendone la polemica elitarista grazie anche a Daria Deflorian, che riprende il ruolo del 2006, che compie un capolavoro di autoironia mentre Pieraldo Girotto, uno degli attori storici degli Artefatti si attiene più allo spirito originale della commedia.
Il risultato è un allestimento piacevole, divertito e divertente, che illustra un momento importante della storia del teatro di lingua tedesca ma i cui spunti e le cui domande sul teatro appaiono oggi entro in limiti di un orizzonte aristocraticamente borghese dal quale Handke non si è mai emancipato.
Il pubblico non esce affatto insultato quanto piuttosto lusingato e illuso di saperla lunga tanto da riconoscere certe critiche che non lo smuovono né lo mettono in discussione ma anzi ne confermano l’autostima.

Completamente irrisolto Anne Sexton cleaning the House di e con Milena Costanzo che approccia il mondo poetico e biografico della poeta statunitense con un piglio maschilista e patriarcale.
Risultato di tre tappe precedenti che hanno approcciato il mondo poetico d Sexton da punti di vista diversi, qui fuse in un testo che appare più un patchwork che un discorso organico, lo spettacolo si concentra più sulla ricerca di un equilibrio formale (che non trova) che sul restituire veramente l’occhio critico con cui le poesie di Sexton sono state lette da Milena Costanzo che crede che per portare in scena la dirompenza rivoluzionaria della bisessualità della poeta basti fare indossare a Gianluca De Col, suo compagno di scena, dei tacchi a spillo o mettere del rossetto, mentre, citando alcune frasi della poeta, si atteggia a ragazzo effeminato.
Perché mai?
Anne Sexton -Cleaning the House- Milena Costanzo e Gianluca De ColIl punto di vista da cui Sexton viene raccontata, è quello maschilista del resoconto (letto da Costanzo con tanto di cartella in mano, vero discorso ufficiale, di cui si ignora la fonte) che addita il suo libertinaggio sessuale come segno di un’eccentricità che sfiora la malattia mentale (evidentemente solo all’uomo si confà la promiscuità sessuale, chiaramente scritta nei geni e non indotta, come invece è davvero, dagli stereotipi di genere) che infastidisce e sorprende negativamente anche perché fatto del tutto in buona fede.
L’approccio all’aura della poeta, maudit e dissoluta, paga lo scotto di un provincialismo etico che vede negli orientamenti e nelle identità sessuali non eteronormate la cifra di una stranezza che da sola spiega la poesia…

Per il resto lo spettacolo gira intorno all’esposizione di una serie di velleità attoriali di chi, oltre a mettersi in scena, firma anche la regia senza avere alcun senso della misura (l’ostensione di alcuni oggetti che dovrebbero essere significativi, fatti sulla sigla di attenti a quei due ripetuta per quattro volte…) in uno spettacolo che poco, o nulla, dicono di Sexton e molto dicono di Costanzo.

Parafrasando un celebre film di Scorsese Anne Sexton non abita più qui. Anzi, veramente non ci ha mai abitato.

13782_wedding-singers-_1La sorpresa di questa quarta giornata di festival è stato The Wedding Singers per Teatro della Tosse non tanto per il testo, modesto, di Luca Ragagnin che fa parlare alcune cantanti/cantautrici, tutte morte, da un improbabile paradiso dove commentano, un po’ tutte allo stesso modo, le proprie vicissitudini artistiche e private, ma per la sua interprete, una magnifica Angela Baraldi, capace di restituire con registri interpretativi diversissimi la ruvidità di Janis Joplin, il piglio algido di Nico, l’energia dirompente di Nina Simone, la voce alta di Laura Nyro tanto per citare alcune delle donne evocate. Con una disinvoltura pari alle sue doti di attrice che sa spaziare meglio del testo da un’anima all’altra, dando credibilità e diversità a dei personaggi che il testo tende un po’ a racchiudere tutti nella stessa cifra femminile Baraldi è accompagnata da un trio, gli Edgar, che suona unplugged, e sa sostenerla dando spessore alle sue doti canore e interpretative.

The Wedding Singers prende il meglio del teatro e del concerto musicale facendone una sintesi elegante perfettamente in linea con la nona edizione del Festival.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(8 settembre 2014)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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