“Au borde du monde” o dell’ambiguità del documentario contemporaneo

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au-bord-du-monde-henri peitdi Alessandro Paesano twitter@Ale_Paesano

Au Borde du monde (Francia, 2013) di Claus Drexel è un documentario che rende testimonianza di alcuni e alcune clochard di Parigi ripresi e riprese di notte nell’ambiente in cui vivono.

Uno sguardo caratterizzato da uno squisito gusto fotografico magnificamente restituito dalla splendida fotografia resa possibile anche in esterni, senza illuminazione dedicata, grazie alla cinepresa digitale ad alta performatività.

Gli esterni parigini by night, ripresi in tutta la loro magnificenza, costituiscono uno scenario grandioso che si fa indifferente alle vite degli uomini e delle donne che vivono ai margini di una città che non riconosce loro spazio – ed esistenza – alcuno.
Un ammanco di dignità umana che emerge anche da molti dei loro racconti nei quali ricordano che clochard, banalmente, non si nasce ma si diventa.

Tra le tante storie e testimonianze riportate una delle più struggenti è quella di Christau-bord-du-monde-costel petitine (i nomi vengono ricordati alla fine del film) che spiega all’intervistatore (la cui presenza ogni tanto si rivela in voce) che il rischio della sua condizione di clochard che spera di ricongiungersi ai figli – anche loro sula strada – non è quella di impazzire (come gli chiede scioccamente Drexel) ma quella di abdicare al corpo stanco che non sopporta più gli stenti dell’inverno e della vita all’addiaccio a rinunciare alla sua speranza che la tiene ancora in vita.

Questo approccio estetizzante, dalla splendida fotografia e dagli scenari altrettanto grandiosi (Parigi si presta benissimo), evidenzia due grossi limiti di questo modo di fare documentario.

Il primo e il più evidente è lo sfruttamento spettacolare dei e delle clochard.
Christine, donna ageè, viene mostrata pernottare sotto la neve, mentre viene intervistata per un documentario senza che nessuno le offra un riparo anche temporaneo, anche solo per quella notte, anche solo per la durata dell’intervista. Christine viene ripresa con lo stesso approccio estetizzante con cui viene ripreso il pont neuf di notte facendone non una persona ma uno degli elementi pittoreschi dello scenario parigino.

Un approccio fastidioso che emerge in ogni intervista dove le domande di Drexel sono quelle che un adulto paternalista può fare a un bambino ritenuto ingenuo e poco avvezzo alla vita.

Più comune a molti documentari contemporanei è la finzione spontaneista con cui il documentario si au-bord-du-monde-christine petit approccia ai e alle clochard.

Nonostante oggi il pubblico conosca il dietro le scene tecnico con cui la realizzazione di un film viene effettuata Au bord du monde nasconde i sui procedimenti di realizzazione avvalendosi di una estetica della presa diretta finta e mendace perché in realtà organizzata e preparata inficiando tutto il lavoro di ricerca e preparazione durato un anno (come si evince dai ringraziamenti del regista nei titoli di coda).

La veridicità di quanto è riportato nel film dalle voci dei e delle clochard non si basa sull’immediatezza e la spontaneità delle dichiarazioni delle persone intervistate ma sul rapporto di fiducia e amicizia che è nato tra loro e l’intervistatore. Nascondere questo processo di conoscenza, questa relazione umana senza la quale non c’è comunicazione, e ricercare la verità nella trasparenza del mezzo di registrazione, falsa completamente il dispositivo documentale messo in azione.
Se si nasconde questo processo senza accennarvi nemmeno, e si restituisce solamente il prodotto finale siamo ancora squisitamente all’interno dell’intrattenimento.au-bord-du-monde-jeni
Fare intrattenimento di chi vive senza fissa dimora senza restituire gli aspetti sociologici, antropologici e politici ma dandone pietisticamente solo la cifra privata e personale tradisce la peggiore delle ideologie borghesi.
Il rischio è che dopo la proiezione il pubblico si senta buono per essersi commosso dinanzi tale sfacelo mentre in cuor suo pensa grazie a dio questo a me non è successo con buona pace dell’umanizzazione che il documentario pretende di stare facendo di queste persone che sono, restano e devono restare altro da noi borghesi.

 

 

 

 

 

(11 aprile 2015)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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