“Il Vanesio del Teatro degli Ignoti”, il racconto a puntate di Giuseppe Enzo Sciarra

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di Giuseppe Enzo Sciarra (prima puntata)

L’amato-odiato contro cui inveisco con insulti che hanno le intenzioni malevoli di una fattura si chiama Federico. È napoletano, Federico Maio. Fa la maschera a teatro. Infatti l’ho conosciuto lí, al teatro degli Ignoti. Marcantonio, Adone, Marte – tutto quello che fa parte della mitologia della bellezza maschile gli si addice perché è incredibilmente bello. Alto uno e ottantacinque, bruno, dai folti capelli ricci e dal corpo possente e prestante, un corpo che odora di sesso e che promette orgasmi ed eiaculazioni a fiotti. Conobbi Maio una sera di gennaio del 2015 e subito il cuore cadde ai suoi piedi quando apparve ai miei occhi la sua bellezza sfrontata e dionisiaca che volevo ardentemente fosse mia. Capii però subito che era superbo. I suoi modi non erano gentili con le persone in fila per vedere lo spettacolo. Federico le maltrattava. Le zittiva snervato al minimo cenno di una chiacchiera e rispondeva mal volentieri alle loro domande. Pensai “con questo ci scoperei e basta”. Nel frattempo aspettavo di entrare in sala per vedere lo spettacolo. Scrivevo recensioni per una testata online: “Il satiro”, che si occupava di teatro e dovevo scrivere della pièce. Una donna in controluce.

Non fu facile vedere lo spettacolo di una madre malata di Alzheimer la cui fine era in scena. Fui impressionato dalla recitazione di Ludovica Sermonti che interpretò quel ruolo magistralmente – peccato che un anno dopo si sia tolta la vita. Ricordo che quando lo spettacolo terminò mi avvicinai in punta di piedi per farle i complimenti e fu quasi incredula che l’avessi apprezzata, mi osservò con diffidenza e timore. Restai colpito da quel distacco. Ci rimasi male. Col senno di poi capii che quella diffidenza era sofferenza e incapacità di esprimere nella vita reale quei sentimenti mostrati così bene su un palcoscenico.

Ma Maio era gay? Io credevo di no. Mi sembrava uno spaccone eterosessuale della peggior specie: quel cliché del ragazzo arrogante e violento a cui molti ragazzi di vita (come li chiamava Pasolini) si ispirano per darsi un tono, per vivere la strada, per farsi rispettare. Mi sembrava un delinquente, Maio. Uno che con quel contesto di attori e estimatori del teatro aveva poco a che fare. Guardava tutti con aria torva e disprezzo. Pensai che ci disprezzasse perché veniva dalla strada e invece era solo un figlio di papà figlio di puttana.

***

Come sottrarsi all’odio quando ti è stato instillato a gocce un po’ per divertimento e un po’ per noia?

Ho difficoltà a liberarmi di certe crudeltà subite, le sento sotto pelle smuovermi il sangue – il sangue della carne ribolle come violenti correnti di risacca che si scagliano contro quella parte di me che io chiamo anima, quel santuario che è in ogni dove in cui si celebrano e maledicono i nostri sentimenti, dove dovremmo essere noi e solo noi a decidere se profanare quel luogo sacro e lercio – è una fogna benedetta da dio l’anima.

Sia maledetta la cattiveria degli esseri umani soprattutto di coloro che amiamo. Sia maledetto il belloccio del teatro delle chimere, quel teatro degli Ignoti trasteverino, vicino a quel fiume appestato dai topi che è il Lungo Tevere, dove andavo ad adulare il lupo cattivo: il vanesio che ho idolatrato solo per la sua virilità e che ho cercato disperatamente di rendere reale. Da lui non ho avuto nulla, né un bacio né un abbraccio né il cazzo – in tutti i sensi.

Semmai dal mio amato o presunto tale ho ricevuto solo cumuli di disprezzo. Il maledetto figlio di puttana ha compiuto degnamente quello che il suo aplomb gli ha richiesto: fottermi! E io non riesco a non scrollarmi di dosso il male che ho ricevuto dall’attorucolo di una blasonata accademia romana, il figlio di papà e figlio di puttana che ha usato come latrina il mio amore – maledico amore e le sue frecce mendaci perché l’amore per questo qui non è stato puro.

Così sono sprofondato nella pece nera, nel buio della disperazione, a causa di un amore platonico. Ho sacrificato all’immaginazione la verità. Ho preferito rendere gli asini principi per fare risorgere dalla cenere quei sentimenti che ci inculcano di vivere per rendere il tempo più interessante e meno doloroso.

***

Provai a guardarlo, Adone. In modo sfacciato, come facevo di rado e se mi avesse preso a pugni, pazienza. Dovevo smettere di vergognarmi di fare capire a un uomo che mi piaceva. Con gli occhi si dice tutto e se volevo conquistare la mia libertà sessuale dovevo guardare chiunque volevo. A Federico Maio il mio sguardo per brevi secondi comunicò qualcosa di diverso da quello che mi aspettavo. Lo vidi splendere. La sua aria cupa e crucciata si illuminò di luce, era come se il sole gli si fosse posato addosso mentre eravamo dentro un teatro e fuori era notte. Fui colpito dalla sua reazione. Non me l’aspettavo. Di colpo si era tolto la maschera di quella figura meschina e odiosa di cui si ammantava per diventare un altro, mi fece un sorriso benevolo. Dunque gli piacevo. Quelli come noi si fiutano. Lo sguardo è il mezzo più potente che abbiamo per suggellare legami e scoparci fino al midollo prima con gli occhi e poi con il resto del corpo, se c’è l’occasione giusta per poterlo fare. Uscii dal teatro dopo la risposta che cercavo da Federico. I miei occhi raccolsero le stelle.

(…continua)

 

(13 giugno 2021)

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