“Il Vanesio del Teatro degli Ignoti”, quinta puntata

Altra Cultura

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di Giuseppe Enzo Sciarra (quinta puntata)

(…continua)


” Finirai di nuovo in una clinica”!

Mia madre fu perentoria. Quel mio malessere non lo sopportava più. Era stanca di lottare da sola. Un figlio che rifiuta la propria sopravvivenza ti urla con veemenza il tuo fallimento come genitore. Vorresti per esasperazione mollargli un pugno in faccia per scuoterlo, arrivando a odiarlo perché minaccia di nuovo il suicidio e sai che sei sul filo del rasoio: “Lo faràoppure no? Ci ha già provato tre volte”. Non ce la fai più, tu madre madonna immacolata con un figlio così, vivi il suo martirio insieme al tuo su quella croce – e ci sono troppi chiodi su quel tuo corpo agonizzante; due moribondi (madre e figlio) lasciati soli a patire le invettive della disperazione e dei sensi di colpa senza l’aiuto dello spirito santo.

Se sei adolescente e depresso resti bambino più del previsto, alla mercé dei tuoi genitori. Un male per te e per loro, mamma e papà – lo allevi per farlo crescere, ti prodighi perché diventi adulto e aiuti la famiglia ed invece a quattordici anni grida come un neonato isterico.

Le mie minacce di suicidio furono la violenza che esercitai contro mia madre, per distruggerla e avere un po’ del suo sangue. Per anni avrei voluto che comprendesse il mio dramma e quando alla fine avvenne forse per me era troppo tardi: dove era stata prima quando mi bullizzavano? E quando ho spompinato dietro ricatto il padre di un mio amico e provarono a violentarmi due coetanei? A undici anni tentai di avvelenarmi senza successo prendendo dei farmaci a casaccio. A quindici e sedici ci riprovai. Nel primo caso finì con una lavanda gastrica e con l’intera mia famiglia sotto shock, nel secondo caso i farmaci sortirono l’effetto di un lassativo, nel terzo vomitai un secondo dopo aver ingerito la pozione per l’altro mondo.

***

Questa clinica è perfetta per morire. I miei genitori per un mese mi mandarono in un centro privato per persone con disagi psichici. Vuole suicidarsi. Tenta di uccidersi. Cosa si può fare? Lui si sente diverso. Si sente solo. È frocio! Non ha possibilità di avere un amore, si preclude di averlo, abbassa lo sguardo se i ragazzi lo guardano. Al sud gli altri maschi non si guardano. Se lo fai o credono che vuoi sfidarli o che sei frocio e se ti additano come ricchione è finita. Di froci ce ne erano pochi, io ero tra i pochi, pensavo. Per il resto vedevo attorno a me qualche caso umano o scherzo della natura.

***

Guardandomi le dita. Guardando il soffitto bianco. Prendendo lo Xanax e poi il Prozac e poi lo Xanax e poi il Prozac e poi ‘sto cazzo! Che adolescenza funebre! Solo in una camera, imbottito di farmaci, a diciassette anni osservavo la vita che non vivevo, una giovinezza vestita di stracci. I miei coetanei non mi volevano tra loro e piuttosto che finire nelle loro mani e subire le loro bastarde angherie di ragazzi bastardi che meritavano di morire perché ne uccidevano altri più sensibili di loro (‘ste merde), mi nascondevo!

Quando in questa sudicia clinica penso al suicidio e a finire così la mia vita che si arrabatta a proseguire il suo corso già dal suo sbocciare adulto, sono sereno. Penetrando molto giovane nelle tenebre del mondo-inferno, la morte se ne va come se non l’avessi mai sfiorata ma solo percepita per errore. Io e lei siamo fratello e sorella. Viviamo l’uno nell’altra. La mia fine sarebbe lo stop a un penoso senso di smarrimento e di sfiducia negli altri che sono mostri. Non dovevo voler vivere per colpa loro. A causa di questi giovani di merda e di questo mondo che non mi vuole. Ecco perché sono assente nella mia città. Mi nascondo alle persone. La mia paura e il mio timore giustificato che mi facciano del male mi rendono invisibile.

Diventa figlio di puttana! Mena le mani! Fai del male! Il mondo cambierà perché sarai maschio. È perché non sei maschio che il mondo ti fotte! La società patriarcale te lo ribadisce da sempre ” È l’istinto che deve sopraffare, animale”! Le marionette che eseguono alla lettera il becero slogan sono tante. Troppe. Troppi maschi coglioni e disperati.

 

***

L’ho sognato svariate volte Federico Maio, ma quella allucinazione-premonizione mi turbò. Fu brutale. Ero in uno scantinato, illuminato dalla luce di una candela – quelle da chiesa pallide e tristi come i preti che le sistemano nei luoghi deputati allo scambio candela-offerta. Non riuscivo a muovermi, un incantesimo mi aveva contratto gli arti fino alla paralisi – non li sentivo, non mi sentivo padrone del mio corpo rassegnato al male – e un’ombra imponente, spaventosa, si ergeva su un muro bianco sporcato da varie chiazze di umidità. Lui era immobile. Di quell’immobilità che annuncia una collera pericolosa e soprannaturale. Stava per compiersi un delitto. L’ombra che temevo era Federico Maio, posseduto chissà da quale demone, vestito di nero pece, occhi serrati, labbra tumefatte, indossava una gonna lunga simile a un abito talare. Si avvicinava a me, alla vittima del sacrificio, colui che non deve dire ciò che vede e non deve far vedere ciò che dice. I suoi passi misurati, di una freddezza militare, implacabile e impaziente di realizzare il suo obbiettivo, suggerivano una azione orrenda, come un cadavere che cammina in una leggenda voodoo, un morto che irride i vivi e vuole farli soffrire. Gridai: ” Vai via mostro”!  e solo allora notai che il suo viso si era fatto d’improvviso più femmineo, come se cipria spuntasse dalla barba dura e maschile. Si arrabbiò. Il volto non più virile si contrasse in una grazia femminile e maschile che divenne la quintessenza della frociaggine, infastidita dal mostrarsi così: nuda e senza trucco. Avvicinò l’indice alla bocca truccata di rosso e shhhhh!, silenzio… Poi puntò velocemente l’indice verso di me. Nell’unghia del dito notai brillare dello smalto nero e fu un momento: dal dito esplose un colpo d’arma da fuoco e caddi violentemente a terra colpito alla testa. Mi svegliai per lo spavento col cuore che esplodeva nel cervello come la pallottola che avevo sognato di aver preso. Pensavo di esser morto, invece ero nella mia stanza ed era ancora buio. Mi addormentai con la luce accesa. Dato che nemmeno di essere vivo ero più sicuro.

***

La testata per cui scrivo – a parte quella teatrale per cui lavoro a gratis, Il Satiro – esiste da un secolo e si chiama “Lente sul mondo”. Da qualche anno è passata anche all’online con un certo successo. Siamo una cinquantina di persone in redazione e vado più o meno d’accordo con la maggior parte dei giornalisti. Tutti sanno che sono gay e a nessuno può fregar de meno – anche perché non sono l’unico tra gay, bisex, cripto gay e compagnia bella qui al giornale: il settanta per cento di questa redazione è rainbow, queer o quel che cazzo vi pare. Da domani inizierò un’inchiesta sul patriarcato. Intervisterò un paio di uomini di varie fasce d’età e orientamento sessuale sulla loro esperienza con il mondo maschile.

***

Ero in torto con me stesso. Sarebbe stata sventura scatenare il sotteso e violento contrasto tra me e lui. Troppo diversi io e l’amore che ho scelto. L’amore che ho scelto non mi vorrebbe nemmeno se mi fossi innamorato di me stesso…

 

 

(continua…)

 

 

(11 luglio 2021)

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