Il Vanesio del Teatro degli Ignoti. La decima puntata del romanzo di Giuseppe Sciarra

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di Giuseppe Sciarra, #ilvanesiodelteatrodegliignoti

(Il tempo delle mele fuori tempo massimo parte IV)

Dopo il rito magico, Giuseppe mi disse che avrei visto la sepoltura di quella adolescenza irrisolta che mi portavo dietro come un fardello. Avrei attraversato le acque torbide di Caronte, senza un padre e una madre, con gli occhi sbarrati nella nebbia della cecità incipiente, in balia dell’estasi e della paura. In attesa del pendio, mi sarei consumato, perché questo è il brusco e dolce risveglio alla vita e all’età adulta.

***

Portai lo stregone al Teatro degli Ignoti. Lui stesso mi chiese di andarci perché da tempo non vedeva uno spettacolo teatrale e poi voleva entrare nel santuario delle mistificazioni anche (e soprattutto) per rompere il mio incantesimo: svelarmi la verità su quel mio amore irraggiungibile e potente. Giuseppe aveva preso a cuore la mia causa, lui che era così affamato d’amore (cosa si fa per vivere una passione e uccidere se stessi). Credeva che mi fossi inventato tutto e che la tresca platonica con Federico Maio fosse una mia invenzione, un modo per dare vita a un qualcosa che non avevo mai vissuto. Ero molto arrabbiato con Maio per i modi con cui mi aveva trattato l’ultima volta di fronte alla mia amica Arianna. Decisi quella sera di salutare freddamente quel grandissimo pezzo di merda e di fingere di ignorarlo. Così feci. Entrai nella tana del lupo con Giuseppe, sapendo che facendomi vedere con un bellissimo ragazzo come lui – con quella pelle olivastra mediorientale, gli occhi castani grandi e ovali, i lineamenti aristocratici e al contempo marcati con mascelle prominenti come promontori di un meridione fermo al Regno delle due Sicilie – avrei attirato l’attenzione dell’altro bellissimo che mi aveva condannato al supplizio. Maio era come un babbeo immobile davanti l’entrata di una delle sale in attesa di controllare l’obolo per traghettarci in un altro mondo a calci in culo, come richiede il suo discutibile savoir faire. Lo salutai con distacco. Quasi non gli rivolsi lo sguardo. Guardai fisso invece Giuseppe e finsi indifferenza, per punirlo – le passioni devastano signora mia, soprattutto quelle che invochiamo per recuperare il tempo perduto. Lo stronzo non si aspettava che il suo schiavetto stavolta non gli morisse dietro e ci rimase malissimo, addirittura si ingelosì appena vide Giuseppe, quest’ultimo mi bisbigliò a un orecchio, ridacchiando: “Ma hai notato che è diventato rosso non appena ti ha visto?”

“Come rosso?”, domandai stupito.
“Ti ha visto ed è diventato rosso in faccia!”, esclamava Giuseppe incredulo.

Mi voltai subito per vedere cosa faceva Federico perché fino a quell’istante interpretavo la parte del sostenuto in quel teatrino alla Goldoni recitato male e scritto peggio. Lui era in posa e in agguato con lo sguardo puntato come una mitragliatrice su di noi. Non si scomponeva minimamente. Era ipnotizzato. Di un rosso violaceo in volto, corroso dalla rabbia più che dall’amore, osservava Giuseppe con livore. Sembrava volesse picchiarlo. Era sul punto di attaccarci come un’omicida che sta per compiere un delitto passionale per essere stato tradito. Giuseppe non si scompose e lo guardava con occhi di sfida.

Si divertiva da morire il mio nuovo amico e io ne ero felice. Che bella rivincita! Allora non gli ero indifferente. Come ero soddisfatto di averlo ferito – speravo soffrisse come un cane come ho sofferto io negli ultimi giorni e immaginasse di tutto. Allora era amore? Il bastardo mi amava? Giuseppe continuava a ridersela in modo sempre più manifesto davanti a lui che gli lanciava occhiatacce su occhiatacce. Federico continuava a guardarci male anche mentre staccava i biglietti, a tratti era un po’ inquietante. Avremmo potuto dirgli che cazzo vuoi e lui non si sarebbe scomposto. Sembrava completamente dissociato. Mi faceva un po’ pena .

“Mi odia. È geloso.”, sussurrò Giuseppe e aggiunse. “Continua a guardare! Gli dico di smetterla?”
“Lascialo perdere. Evitiamo scenate”, risposi in preda a una strana ansia, sentendomi a disagio.

Federico sembrava impazzito e continuava a guardarci. Ci guardava, ci guardava con quegli occhi maligni e collerici. Ci avrebbe scannato con un’ascia se avrebbe potuto. Per lui io e lo stregone eravamo gli amanti che osavano mostrarsi e farsi beffa del Principe – benché tra me e lui non ci fosse un bel nulla a conti fatti. Di colpo, fece una delle sue cose da pazzo  furioso: distolse lo sguardo da noi e aggredì uno spettatore con la sua consueta maleducazione, poi chiese in modo sbrigativo a un collega di sostituirlo e corse come una furia verso la biglietteria, spintonando un’altra sua collega che lo aveva incrociato e che si ingoiò il Ciao! allegro che gli stava lanciando. Tutti restarono sbalorditi dal suo comportamento. Anche io e Giuseppe ci guardammo allibiti. E pure la collega di Federico ci guardò per un attimo, anche lei sgomenta da quello che era accaduto. Da quel momento Federico scomparve e non lo vidi più durante tutta la serata.

“Ma questo è un pazzo scatenato!” , esclamò Giuseppe guardandomi preoccupato.
“Ascolta Davide, tu con questo hai messo in circolo energie strane. Stai molto attento! Questa persona non sta bene. ”
“Lo so.”, risposi preoccupato.
“Però ti piace.”
“Si.”
“E se arriva a ammazzarti?”, domandò il mio nuovo amico. A tal punto aveva trovato pericoloso Federico Maio. Che esagerazione!
“Potrebbe farlo?”
“È uno che non si accetta. Lascialo in pace! Non giocare con il fuoco. Non sa controllare i nervi. Se lo ami lo devi lasciare in pace!”, esclamò perentorio Giuseppe.
“Non puoi chiedermi una cosa del genere.”, risposi categorico.
“Gli hai mandato in pappa il cervello.”
“Anche io sto in fissa per lui.”
“Non dire cazzate. Tu il cervello ce l’hai a posto. Mentre lui sta impazzendo. Guarda che è innamorato ma non come vorresti tu. È un amore malato”, il mio amico parlò con una severità che mi fece agitare. Il tipo che aveva sostituito Federico ci fece cenno di entrare in sala.

” Tu la fai facile Giuseppe. Da mesi ci sto male”, dissi a stento come se mi avessero dato un pugno e dovevo reagire a quel colpo, parlando, per difendermi da una verità che non mi piaceva. “Come cazzo faccio a togliermelo dalla testa?”

***

L’altra metà del cielo era un cielo fosco, nuvoloso, dove il sole non levava mai gli occhi e le nubi grigie lassú pareva volessero occultare la luce e rendere la vita grigia e senz’anima.

Giuseppe lo compativa. Diceva che faceva il bastardo per paura e che dovevo comprendere le sue reazioni irrazionali. La mia parte emotiva tollerava fin troppo l’intollerabile anche se razionalmente invece iniziavo a disprezzarlo. Con una persona del genere cosa avevo in comune? Ero scisso in due: un folle amore da un lato decretava la mia schiavitù verso Federico Maio e un astio verso tutto quello che il folle amore rappresentava, un amore così folle che io lo amavo e lo odiavo e che accusavo di grettezza e insensibilità. Un giorno preso dall’ansia e dal tormento per quel conflitto interiore parlai nuovamente con Giuseppe dell’assurdo amore per un uomo che non mi faceva stare bene. Lui fece accenno a una cosa molto interessante che aveva letto su un testo greco. A quanto pare Euripide, in una sua tragedia, sosteneva l’esistenza di due tipi di amore: il primo portava verso la felicità e l’appagamento, l’altro invece faceva male; citò a riguardo di quest’ultimo tipo di amore una breve frase: “La vita torbida fa.” Giuseppe aggiunse che uno degli amori, quello bello, provocava la sophia greca, la sapienza, mentre l’altro distruggeva l’anima dell’uomo, e pronunciò questa frase “Uccide le scintille negli occhi”.

Rimasi in silenzio per un po’. E poi: “Il mio era il secondo?”. Pronunciai la domanda che era uscita da sola cercando di mascherarla con quello che volevo fosse ironia. Giuseppe sorrise ma non rispose, per lui stavano parlando i suoi occhi fugaci e vispi…

***

Presi nuovamente a spiarlo dai social network, a consumare tutte le sue immagini, adesso senza timore di esagerare e di apparire a me stesso uno stalker. Cercavo risposte e non ne trovavo in quelle immagini di un dio terreno su cui avevo riposto voluttà e sacrificio. Trovai una foto di Federico con un ragazzo piuttosto carino dagli occhi azzurri e furbetti, in cui dei lineamenti regolari e fini tratteggiano con cura delle guance scavate e una bocca sottile che suggeriva civetteria e ironia. Il tipo in sua compagnia dava l’idea di essere uno piuttosto loquace, palesemente gay, con una certa aria femminea. Nella fotografia entrambi ridevano di fronte ad una opima guantiera di dolci con zeppole zuccherate, bignè e babà. Dai loro sguardi intuii amicizia più che amore anche se una foto è pur sempre una foto, sopratttutto quando suggeriva ben poco sul mio glorioso e meschino idolo. Nel tag della fotografia trovai il nome del suo “compagno di merende”, tal Nicola Ziglio. Andai sul suo profilo ma non era aperto a chi non era suo amico. Fui in preda a una gelosia furiosa. Un dolore affamato di vendetta. Con me era un vile, Federico Maio, mentre al suo amichetto mostrava dolcezza e… Insomma stavo delirando. Cosa pretendevo da uno che non conoscevo solo per uno scambio di sguardi insistenti in cui io ero assoggettato al suo fascino e gli davo un immenso potere continuando a restare solo mentre lui si faceva beatamente i cazzi suoi.

 

(11 novembre 2021)

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