di Marta Angelini
Una città conturbante come Istanbul non manca certo di luoghi suggestivi da visitare o di edifici evocativi che solo percorrendoli ci proiettano in un passato mitico, al tempo in cui nei padiglioni riccamente decorati sonnecchiavano le favorite e pascià e visir decidevano le sorti dell’impero ottomano seduti su divani bassi sorseggiando caffé. Il luogo di cui vorrei parlare, a differenza degli sfarzosi palazzi dei sultani o delle maestose moschee, appare per contrasto come un’umile palazzina che fa angolo tra due vicoli, dipinta di rosso mattone che, se non fosse per questa peculiarità cromatica, si confonderebbe tra gli altri palazzi dell’isolato.
Per raggiungerla, se vi trovate nella monumentale Sultanamet, occorre attraversare il ponte di Galata e salire sull’altura di Çukurcuma nel distretto di Beyoğlu, un tempo colonia genovese. Protetto dallo sfavillio commerciale dell’arteria İstiklal Caddesi, il Museo dell’Innocenza è circondato da negozi di antiquariato, robivecchi, bottegucce di varia natura che tradiscono una reticenza e una resistenza nei confronti di qualunque aggiornamento, un atteggiamento di pacifica pigrizia, di moto decelerato, un’ode alla trascuratezza dignitosa e all’amarezza compiaciuta.
E forse non poteva che nascere qui l’esperimento museale a mio modesto parere più incomparabile che esista poiché questo luogo di fatto è una transustansazione miracolosa, è parola che si fa spazio fisico e si concretizza in oggetti. È l’immaginazione di uno scrittore che si plasma in muri, scale, corridoi, scaffalature, cianfrusaglie.
Ohran Pamuk, premio Nobel della letteratura nel 2006, avvia il progetto questo museo già dagli anni ’90 e con constanza da collezionista, o meglio da accumulatore, comincia ad acquisire oggetti che faranno da sfondo ad una delle storie d’amore più inquiete che si possano mai leggere e ad uno degli affreschi più interessanti sui cambiamenti socio-culturali della Istanbul degli anni 70 e 80 del secolo scorso.
La complicatissima e decennale relazione tra il trentenne di buona famiglia Kemal e l’umile diciottenne Füsun infatti, nell’omonimo romanzo del 2008, è di quelle che mettono davvero alla prova il lettore provocandogli un perenne affanno. Brevi ed intensissime sono le manifestazioni di felicità, le passioni prevalenti infatti sono quelle dell’abbandono, dell’assenza, dell’ossessione, della perdita, del ricordo e della malinconia, la famosa hüzün istanbuliota. In poco meno di 600 pagine di romanzo si ha modo di sperimentare la letteratura dura e pura, quella che fa sanguinare il cuore e che fa meglio intendere, a noi fragili umani, chi siamo e cosa sentiamo. Anime troppo sensibili siete avvisate.
Un libro così accurato e ricchissimo di dettagli è servito da catalogo per la realizzazione del museo vero e proprio, cioè un luogo che accoglie i visitatori, con un biglietto d’ingresso, la brochure esplicativa, le sale espositive. Entrando già dalla prima sala al piano terra si sperimenta il prodigio. Siamo catapultati fisicamente dentro al romanzo, anzi meglio ancora, siamo dentro alla mente di Kemal, il protagonista e voce narrante che per anni (soprattutto a causa delle sue insicurezze), non avendo potuto godere appieno dell’amore della sua Füsun ruba, sottrae, cataloga un’enorme quantità di oggetti con il fine di ricordare, come in un singolare cenotafio, la sua amata e il tempo che ha vissuto con essa.
Ogni vetrina del museo corrisponde ad un capitolo del libro e contiene gli oggetti accuratamente descritti o anche solo distrattamente menzionati. Un’audioguida ci accompagna rinfrescandoci la memoria con il testo originale disponibile in tre lingue. Dalla vetrina con migliaia di mozziconi di sigarette fumate da Füsun, macchiate da un vezzoso rossetto color lampone a quella con i cani di ceramica Kitsch che troneggiavano sopra il televisore della casa dei genitori della ragazza.
Ed è proprio nella casa natale di Füsun che ci muoviamo, perché nella finzione letteraria Kemal riuscirà ad acquistare l’immobile per farne appunto un museo dedicato al grande amore della sua vita e che diventerà l’umile dimora negli ultimi anni della sua esistenza. Proprio nel luogo in cui la giovane è nata, lui sceglierà di morire arrivando così a definire la sua vita, nonostante tutto, felice.
La visita è consigliata solo dopo che si è letto il libro, altrimenti si perde l’anima, ovvero il genius loci che abita quelle sale. L’esperienza infatti si può considerare completa solo se si conosce la vicenda dei due innamorati molto bene e si è già creato un immaginario personale nella nostra testa di lettori trascinati dalla strepitosa narrazione di Pamuk. La tangibilità del luogo e la reale esistenza degli oggetti esposti completa e spesso a sostituisce le nostre proiezioni mentali rendendo l’esperienza totalizzante.
All’interno del Museo dell’Innocenza siamo allo stesso tempo dentro e fuori il racconto, siamo i lettori e siamo Kemal, siamo visitatori attenti e innamorati sofferenti, siamo turisti in terra straniera e cittadini di Istanbul, siamo carne e sangue e allo stesso tempo sublime, catartica letteratura.
Bibliografia essenziale prima di visitare il Museo dell’Innocenza:
Museo dell’innocenza, Ohran Pamuk, Einaudi, 2014
Istanbul, Ohran Pamuk, Einaudi, 2014
Costantinopoli, Edmondo De Amicis, ET Classici, 2015
(24 gennaio 2024)
©gaiaitalia.com 2024 – diritti riservati, riproduzione vietata