dal nostro inviato Alessandro Paesano twitter@ale_paesano
Anche quest’anno la sigla del festival mostra l’immagine di una donna nuda con arco e freccia, che si china e punta in alto la sua arma. L’immagine ripetuta diverse volte vorrebbe omaggiare il precinema di Maray.
Al di là della citazione fotografica e non cinematografica – Maray non ha MAI voluto riprodurre il movimento ma, al contrario, scomporlo (anche se al Museo del Cinema di Torino le sue foto sono state animate, compiendo un falso storico e scientifico enorme) – questa sigla non dice nulla del cinema a differenza di quella precedente, che mostrava alcune delle sequenze dei film italiani (o di registi italiani) che ci hanno reso celebri nel mondo…
Boldrini continua ad avere ragione da vendere quando notava recentemente che il corpo della donna è impiegato per pubblicizzare di tutto.
E’ vero che, nella seconda metà dell’800, le foto di Maray fecero scalpore proprio per i nudi. Ma già allora i nudi erano sia femminili che maschili.
Per la sigla di Alice nella città è stato scomodato Gabriele Salvatores che non ha trovato niente di meglio che mostrarci due prospetti architettonici diversi, uno romanizzante l’altro moderno, per poi raccontarci con poche inquadrature della cotta di un ragazzino – biondo e bellissimo – per la compagna del banco davanti – altrettanto bionda e meno bella – che chiama toccandole una spalla rimanendo deluso dal suo sguardo assente e poco compiaciuto. Poi ecco che la ragazzina disegna una faccina sorridente e la speranza nel ragazzino torna a sorridere.
Cotte paradolescenziali come messaggio per i giovani adulti di domani, come a dire dato il futuro che aspetta la nostra gioventù meglio pensare ai sentimenti, ma non credo fossero queste le intenzioni di Salvatores che pensa a una gioventù scollata dal presente rigorosamente etero e con i ruoli di genere classicamente consolidati: queste donne che ci fanno tanto soffrire!
La prima anticipata stampa è proprio un film della sezione Alice, presentato fuori concorso, e si tratta di Fino alla fine del mondo (Italia, 2013) di Alessandro Lunardelli, alla sua opera prima, che ha il pregio di presentare Davide, il protagonista gay del film, non come una macchietta ma come una persona, e questo, per il cinema italiano, è già molto.
Davide è sicuro di quello che vuole e di quello che è anche se in famiglia non è ancora dichiarato, ma appena vediamo il padre capiamo subito il perché.
A Barcellona per seguire una trasferta dell’Inter della quale il fratello Loris è tifoso David conosce Andy, un ragazzo più grande di lui, che lo invita a seguirlo in Cile dove milita in un gruppo di attivisti à la greenpeace. Lì Andy ritrova la sua ex Giulia e a Davide non presta nessuna attenzione.
Quando Andy parte da solo per la Patagonia, David teme possa compiere il suicidio che gli aveva confessato e si mette sulle sue tracce. Al viaggio si uniscono Giulia e Loris giunto in Cile per riportare David a casa.
Se nella parte ambientata in Italia il film si incentra su David e sulle sue difficoltà oggettive a essere un giovane gay in un paese di provincia maschilista e spontaneamente omofobo, in Cile il film si incentra più su Giulia e Loris lasciando David alla sua cotta adolescenziale per Andy (anche se David di anni ne ha già 18) allineandosi alla vocazione del cinema italiano a presentare i personaggi gay soli, senza alcuna relazione affettiva (Andy fa forse sesso, ma questo il film lo accenna solamente, con uno spacciatore non più giovane) e meno affettivamente maturi dei ragazzi etero.
La cotta di Davide per Andy non si basa infatti su nessun evento accaduto tra i due tale da giustificare l’innamoramento né la decisione di andare in Cile che sono solamente degli espedienti per imbastire un film on the road che si dimentica di Davide distratto da uno sguardo attento all’esotico che, pur se non oleografico, non sa farsi mai davvero politico.
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