di E.T. twitter@iiiiiTiiiii
Abbiamo assistito alla prima di Hedda Gabler di Ibsen per la regia di Antonio Calenda, splendido testo – adattamento o traduzione discutibilissimi – del grande autore norvegese, in scena al Teatro Quirino in Roma.
Parterre de roi, dietro di noi Giuliano Ferrara con consorte, poco distante Achille Occhetto e gentile signora, a oca, ops, poca distanza Marina Ripa di Meana in rosso con gentile consorte, Oliviero Beha cammina di qua e di lá durante le pause. Inizia lo spettacolo e la prima nota è sul maleducatissimo pubblico presente che non smetterà di fare rumore per tutto la sua durata.
Hedda Gabler è Manuela Mandracchia, bravissima, rigorosa nel suo lavoro di difficile equilibrio tra l’ironia ed il suo dramma interiore per tutta la prima parte dello spettacolo, che tesse relazioni emozionali con i suoi compagni di lavoro mentre il testo si snoda tra tra il susseguirsi unemotionally dellle battute, e la sua padronanza della scena.
La protagonista ha una grandissimo controllo del personaggio, è misuratissima, bellissima nella sua insolente presenza.
La storia così piccolo-borghese dell’ambiziosa donna dal passato inquietante ed oscuro che vuole una vita di agi e di passioni e si ritrova sposata ad un uomo che non può offrirle nulla di ciò che lei vuole, nonostante si sia riempito di debiti per farla felice, comincia a perdere colpi nella seconda parte, e non per demerito della protagonista.
Mentre lo spettacolo si avvicina al finale, il dramma assume toni sempre più grotteschi, gli attori sono sempre meno credibili, e tutto sembra trasformarsi nella farsa di una farsa invece che nella critica alla borghesia cui il testo originale richiama.
In questa perdita di credibilità viene coinvolta la fino a quel momento perfetta Manuela Mandracchia ed il momento finale del suicidio di Hedda Gabler non vive né di pathos né di verità.
Forse il regista ha proprio voluto così.
Repliche fino al 22 dicembre poi in tour per l’Italia per tutto gennaio.
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