Era mio padre di Loredana Parrella: connubio perfetto fra coreografia e teatro

Altra Cultura

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Loredana Parrella 00di Alessandro Paesano

Nel cercare un correlativo contemporaneo dell’archetipo di Elettra, per la sua trilogia a lei dedicata, Loredana Parrella ha pensato a Benedetta Tobagi, la figlia di Walter Tobagi, il giornalista del Corriere della Sera assassinato nel 1980.
Il ricordo di un padre che le hanno tolto quando era ancora una bambina, raccontato da Benedetta nel suo libro Come mi batte forte il tuo cuore (Einaudi, 2009), diventa, nella splendida coreografia di Parrella, un’occasione per riflettere sulla memoria, sulla ricerca delle propria origine e della propria storia.

Una memoria radicata in un corpo desiderante, dove il desiderio è declinato in tutte le sue possibilità da quello più devastante della vendetta fino a quello più profondo dell’amore, come spiega la coreografa nelle note di regia.
Un desiderio che, per essere tale, ha bisogno di un’alterità, di un altro corpo, da odiare o da amare, dal quale smarcarsi per affermare se stesso.

Una dualità che Parrella illustra sin dalla sua origine aprendo la coreografia con Elettra, archetipo di femminilità, che maneggia i taglienti utensili donneschi della cucina (tagliando concretissime e profumatissime cipolle rosse) la quale, legata alla vita con una corda, viene tirata via verso il fondo della scena, per poi rinascere sdoppiandosi in due presenze accidentalmente di sesso diverso.

Questa primo quadro si fa figura di due possibili e ambivalenti concezioni della storia.
La storia come origine, che ci tira verso di sé, verso il non luogo dal quale nasciamo e al quale torniamo con la morte.
La storia come potenzialità, come progresso quello che Walter Benjamin descrive come vento che soffia verso il futuro un angelo posto di spalle che rimane così a guardare le macerie del passato mentre se ne allontana.

Dopo che Elettra è stata tirata via e inghiottita nel buio, due figure emergono da una coltre di fogli di plastica, novelli feti, colte nell’attimo della nascita.
Due presenze filiali, quelle di Elettra e suo fratello Oreste e quelle di Benedetta e suo fratello Luca, cui il padre è stato strappato durante l’infanzia.

Su questo doppio Parrella costruisce il confronto-scontro, al contempo gioioso e aggressivo, tra fratello e sorella, tra danzatore e danzatrice.

Sulla scena Yoris Petrillo e Giulia Cenni sono legati da una corda\cordone ombelicale, che influenza movimenti e distanze entrando nella coreografia.
Sulla corda appendono, letteralmente, gli abiti, femminili e maschili, che indossano, si scambiano, si contendono, si lanciano, in una esplorazione di sé e dello spazio circostante con crudeltà infantile innocente e invincibile.

Petrillo e Cenni si inseguono e si fuggono, si sfiorano e si toccano, mentre lei porta lui e lui porta lei, in una continua sovrapposizione dei loro corpi (come quando Cenni si abbarbica su Petrillo porgendogli il microfono dove lui ripete i brani del libro di Benedetta) cui seguono momenti di separazione, senza soluzione di continuità.

Due corpi performanti diversamente sessuati, che incarnano entrambi il maschile e il femminile, non legati necessariamente all’identità biologica, concreta, dell’interprete.

I due generi sessuali sono messi in scena dal danzatore e dalla danzatrice in maniera interscambiabile e non antagonista.

Una dualità portata in scena e subito sciolta e risolta nella natura ludica dei rapporti tra i due personaggi dove lui e lei, chiunque sia a interpretarli, giocano a scambiarsi ruoli e prospettive, due esistenze paritarie accomunate dalla stessa sensualità esperita e vissuta.

La sensualità di un affetto fatto di contatto fisico, quello dell’abbraccio del padre che Benedetta ricorda nel suo libro, e quello dei corpi di Yoris Petrillo e Giulia Cenni che in scena si contendono ruoli e soggettività (così è Petrillo spesso a dare voce alle parole di Benedetta).

Uno scontro-confronto agito da una trama di dolorosa assenza che si attesta sempre su una gioiosa positività che non viene mai a mancare.

Il dolore, la tragedia della morte del padre (quello di Elettra come quello di Benedetta), la precarietà dell’esistenza che si sa non essere eterna, sono emozioni sempre presneti in scena già nella costruzione coreutica, incentrata sul limine di una fisicità in cui lo sforzo richiesto a Petrillo e Cenni tende, senza mai raggiungerlo, al punto di rottura.

Sia che si tratti del gioco di tenere a turno l’un l’altra la testa dentro un secchio pieno di acqua, o il disegnare a tempera con i piedi una allegra famiglia su di un telo di plastica scivoloso, oppure lasciare che dei lacerti di carta rimangano incollati sul corpo (di Cenni), precedentemente cosparso di una mistura di acqua e farina, la drammaturgia dello spettacolo si inserisce nella coreografia invadendola e colonizzandola con una costruzione teatrale che fa da eco visiva e fisica ai brani del libro di Benedetta Tobagi che vengono letti   per non tralasciare mai l’idea della storia e dunque di una fonte.
Brani nei quali scopriamo i ricordi della figlia, i desideri della donna che ha per l’assassino del padre un odio coltivato come un amore, mentre la danza procede per libere associazioni, per assonanze, per fluttuazioni fisiche, del cuore, della memoria, della resistenza fisica del danzatore e della danzatrice in una tensione che ha sempre in sé qualcosa di erotico.

Un erotismo che nasce spontaneo dai corpi performanti di Petrillo e Cenni che danzano, recitano, manovrano oggetti di scena, comprese delle torce che in certi momenti sono l’unica fonte di luce di una scena altrimenti buia.

Un erotismo che restituisce parità e accomuna l’essere umano sessualmente diversificato e declinato nei due generi qui presentati come matrice di comune provenienza piuttosto che come irrisolvibile differenza.
La disperata ricerca da un padre che non c’è più non diventa mai discorso di genere ma rimane nucleo affettivo primordiale che cerca l’alterità come pura costruzione dell’io, perché non esiste un me se non esiste anche e, prima, un non me, prima ancora di qualunque sua distinzione familiare di genere dunque, che condurrebbe inevitabilmente a un rapporto di potere, poco importa se costruito sul patriarcato o sul matriarcato.

Nel loro gioco alla lotta Perrillo e Cenni dissimulano di continuo lo sforzo che fanno quando, muovendosi, resistono alla forza di gravità. D’altronde che cos’altro è la danza se non la forma concertazione di una resistenza inevitabile e necessaria alla forza universale di gravità che ci tira verso il basso?

Con Era mio Padre Parrella ci indica il nucleo originario dal quale dobbiamo ripartire per dirimere e rinnovare ogni nostra interrelazione umana,il copro umano (e donnano) desiderantedove l’innocenza e la crudeltà coesistono offrendosi come fonte di garanzia che il cambiamento è possibile.

Un cambiamento da compiere con un parossismo che è un tributo alla gioia di vivere, di esistere, anche quando proviamo dolore per una assenza, una separazione, una mancanza crudele.

Crudele come la vita.

Crudele come Parrella che pretende il massimo che può ottenere dai danzatori e dalle danzatrici che lavorano con lei e niente di meno.

E anche quello tra coreografa e performer è un altro scambio continuo di richieste e di concessioni, tutte presenti in scena in una performance che lascia spesso senza fiato, mentre il tempo passa, la coreografia termina e il pubblico del Teatro dell’Orologio non ne ha mai abbastanza.

Lo dimostrano gli applausi continui che fanno tornare in scena Petrillo e Cenni più e più volte.
 

 

 

 

©alessandro paesano 2014
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