Roma, grandissimo Teatro Danza nel primo giorno di “Short Theatre 9”

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Short Theatredi Alessandro Paesano  twitter@ale-paesano

La prima giornata della nona edizione di Short Theatre si è aperta all’insegna del teatro di parola e del teatro danza equamente distribuiti in quattro spettacoli diversissimi che hanno attestato una maggiore vitalità della danza rispetto il teatro.

Tanto La casa di Eld della compagnia L’Alakran quanto Veniti Fair di Marta Dalla Via (presente a Short Theatre anche con Mio figlio era un padre) si sono dimostrati deludenti anche se per motivi diversissimi.
Veneti Fair, la cui drammaturgia si basa su una serie di atteggiamenti e dichiarazioni di abitanti della provincia dell’estremo nord del paese, è troppo attento a presentare dei personaggi divertenti, alcuni dei quali sfiorano il cabaret, per invitare il pubblico a pensare davvero alle mostruosità valoriali e ideologiche di certi comportamenti o pensieri.
Si ride di razzismi e maschilismi della provincia veneta finendo per esorcizzarli dal corpo sociale della nazione invece di analizzarne le origini storiche che risalgono a ben prima del fenomeno leghista, cui lo spettacolo vuole circoscriverle, risalendo al fascismo originario del ventennio, mai davvero metabolizzato dal paese e dal suo popolo.
Si preferisce fare spettacolo indulgendo su alcuni espedienti di regia che puntano più all’aura comica di certi personaggi presentati che sul loro spessore drammatico e politico, abbozzato e subito sacrificato all’esotismo di un dialetto come quello veneto, percepito (o presentato) come barbaro (nella sua accezione letterale di straniero). 829_6670_foto
Manca al testo dello spettacolo (una serie di monologhi)  una solidità letteraria che avrebbe potuto sopperire ad alcune disinvolture interpretative dei personaggi.

Qualche indicazione in questo senso è presente nel prologo, recitato da Diego dalla Via, che racconta le vicissitudini del paese con uno stile telegrafico, privo di congiunzioni, dove ogni singola parola inizia con la lettera P che l’attore porta impressa nella T-shirt che indossa.

Non privo di alcune lungaggini Veniti Fiar costituisce un esempio di come il teatro di parola corra il rischio di lasciarsi distrarre dall’affabulazione e perdere di vista la funzione di ripensare il presente e il futuro, che sono le coordinate programmatiche di questa nona edizione del festival.

Deludente e velleitario La casa di Eld, dell’ispanico trapiantato in Svizzera Oscar Gómez Mata, che propone il racconto di una delle fiabe di Robert Louis Stevenson La casa di Eld, in Italiano, passando per una precedente traduzione francese dall’originale inglese.
Il racconto di Stevenson vede il quindicenne Jack ribellarsi a un mago che ha le sembianze dello zio catechista, poi del padre e infine della madre, per liberare sé e gli altri abitanti del villaggio dal ferro che per tradizione, ogni persona si lega al piede sinistro, con relativi problemi di deambulazione e piaghe doloranti.
Questo racconto viene evocato da due attori e un’attrice della compagnia L’Alakran sostenuti dagli interventi scenici di un gruppo di giovanissimi e giovanissime, che aprono lo spettacolo raccontando di Jack, proponendone di volta in volta nuove identità anagrafiche, geograficamente dislocate in diversi quartieri della città di Roma, declamate a un microfono, non sempre con la necessaria chiarezza di pronuncia.

La_casa-di-Eld_c-Steeve-Iuncker1-620x413La presenza dei e delle giovani sulla scena è il biglietto da visita de L’Alakran di Mata, che sono purtroppo oggetto, e non soggetto, di un atto di scambio pubblico come lo definisce l’autore e regista che coinvolge l’infanzia e la gioventù del territorio, facendole agire in scena accanto agli attori e all’attrice.
Purtroppo, qualunque ne sia il motivo (organizzativo, registico o politico) l’intervento dei e delle giovani si limita a un commento esornativo al racconto sviluppato esclusivamente dai due attori e dall’attrice, tutti adulti e che si atteggiano invece, in maniera impacciata e senza mai davvero crederci fino in fondo, a una infanzia rediviva e mal interpretata, che aumenta l’impressione paternalistica con cui sono portati in scena ragazzi e ragazze.
Mata si limita a raccontare senza indagare veramente il portato del testo di Stevenson, senza mai permettere alla gioventù e all’infanzia chiamata in scena di esprimere liberamente un proprio pensiero o un proprio vissuto rispetto quanto raccontato nello spettacolo. Questo ci sembra il limite più grave dello spettacolo.
L’inneggiare alla responsabilità che sottende la rete di relazioni che siamo chiamati e chiamate a intessere nelle nostre esistenze è espressa durante lo spettacolo, al contempo metaforicamente e concretamente, nell’assemblaggio (interminabile) di una serie di bastoni di legno che formano prima dei triangoli e poi una struttura più complessa, allestita dai ragazzi e dalle ragazze, che alla fine viene sollevata a braccia con l’ausilio di alcuni cavi di scena.
Presentata come verità ultima dello spettacolo (il contraltare della morale con cui si chiude la fiaba di Stevenson) questa responsabilità di compartecipazione – che al pubblico italiano suona familiare dai tempi in cui Giorgio Gaber cantava libertà è partecipazione – si rivela il proverbiale topolino partorito dalla montagna di uno spettacolo lunghissimo (90 minuti, 30 dei quali dedicati alla costruzione in tempo reale della struttura) che, nonostante la performance ne sia una componente fondamentale, sembra davvero incapace di dire qualcosa al di là del racconto verbale.
Alcuni interventi cantati durante i quali gioventù e infanzia dimostrano doti canore e armoniche, intessendo anche dei cori, si assestano sullo stesso livello esornativo, di gusto esotico (le canzoni, notevoli, in inglese, tratte dai brani della fiaba di Stevenson non sono nemmeno riportate dai sovratitoli proiettati che di quando in quando ribadiscono frasi e concetti della narrazione.
Se attori e attrice si fossero fatte un po’ da parte permettendo ai giovani e alle giovani di esprimersi davvero liberamente lo spettacolo sarebbe stato un inno allo scambio generazionale (come si legge tra i vari propositi dello spettacolo nel programma di sala). Così com’è dimostra solo l’incapacità degli adulti e delle adulte di tacere e lasciare spazio alle generazioni successive.

Elegante, colto e inquietante Zaches Teatro ha presentato la prima parte del Dittico della Visione progetto di ricerca cui la compagnia lavora dal 2009.  Il dittico, versione breve di una originaria trilogia, indaga l’atto della visione come forma articolata di percezione, ispirandosi a tre pitture diversissime.

Il fascino dell’idioziaFascino-Capro-MR andato in scena ierisera, è ispirato alle Pitture Nere di Goya, una serie inquietante di 14 dipinti a olio coi quali Goya decorò alcune stanze della sua villa di campagna. Le scene sabbatiche, o ispirate al mito di Cronos che dilacera carni umane, sono restituite dalla coreografia di Luana Gramegna che si impone per la puliza di esecuzione con cui immerge i corpi delle tre danzatrici nella luce, con immediata icasticità.
L’impianto luci di Francesco Givone sviluppa dei fasci luminosi sagomati perpendicolari all’impiantito della scena, altrimenti al buio, sagomate in modo da poter essere occupate e lasciate libere agevolmente dalle ballerine facendo emergere dal buio alla luce, e viceversa, parti dei loro corpi, offrendo allo sguardo del pubblico una meraviglia della visione che ricorda le fantasmagorie di Robertson e affini.
Arti, mani e altre parti del corpo danno vita a composizioni organiche di corpi evocando il sentimento oscuro che deve aver guidato Goya nella realizzazione dei dipinti (quando la sua dimora fuori Madrid era divenuta una specie di esilio volontario dopo il ritorno dei Borboni in Spagna). Fuori da ogni contesto storico o culturale la coreografia si dà come pura forma della visione tramite l’ausilio di alcune maschere che evocano i visi accennati e fantasmatici dei perosnaggi ritratti da Goya, ricordando per affinità certi quadri di Füssli o di Bacon (cui è dedicato il terzo momento della trilogia non presentato a Short Theatre).

Il quadro finale che evoca il sabba, con Satana sotto forma di capro, ricorda la visione delle lanterne magiche (il tondo della luce che si chiude in una dissolvenza finale lasciando il pubblico al buio) mentre la performance parla direttamente all’occhio del pubblico, sfruttando anche alcuni suoi difetti fisici (quella persistenza retinica che fa diventare le mani, mosse con la necessaria velocità, delle scie luminosoe, vere e proprie pennellate organiche nella luce) non nuove nel panorama del teatro danza ma di innegabile efficacia ed eleganza.
La riuscita di questo splendido è collettiva basandosi sull’incontro e le sinergie della coreografa e dello sbiluppo luci coronato dall’impeccabile esecuzione delle tre performer giovanissime e altrettanto brave.

In trentacinque minuti appena di performance, Il fascino dell’idiozia dimostrando che si può fare teatro senza lungaggini, ha chiuso la prima serata di Short Theatre nella migliore maniera possibile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(5 settembre 2014)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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