Venezia 71, il tonfo di Fatih Akin

Altra Cultura

Condividi

Mostra Venezia 2014 - 04 The Cutdi Emilio Campanella

Mi dispiace sempre molto scrivere una recensione negativa, se posso cerco di evitare, ma trattandosi di un festival, non posso esimermene. Ulteriormente mi dispiace trattandosi di Fatih Akin, cineasta che stimo, il cui SOUL KITCHEN, meritatamente premiato proprio a Venezia alcuni anni orsono, ho molto amato, molto consigliato e fa parte della mia cineteca, per cui la cattiva sorpresa di questo THE CUT, in concorso, risulta veramente amara.

E’ certo un merito da parte di un regista turco, dimostrare la sensibilità di affrontare il problema tendenzialmente rimosso dal governo di Ankara del genocidio armeno durante la prima guerra mondiale, ma diventa un demerito quando il film è di cattiva qualità, come in questo caso. Confesso che cercando in rete immagini e sequenze, prima della visionatura, un po’ temevo la cocente delusione che si è rivelata reale. Siamo fra l’altro, di nuovo, in questo festival, ad un altro esempio di “cinéma de papa”.

Il lungo, lunghissimo racconto (138 minuti!) è svolto in maniera piana, piatta, con immagini prevedibili, attori poco espressivi, ma è uno di quei filmoni – si diceva una volta – in cui nessuno sembra recitare, appiattito su uno sfondo. Pesantissima la colonna sonora, praticamente onnipresente. Il racconto è costellato di banalità narrative ed estetiche: non ci interessano le belle vedute alla Ippolito Caffi, se non sono motivate, si tratta di bellurìe sterili.

La strage stermina parte della famiglia del protagonista, lui stesso viene solo parzialmente sgozzato e questo porta al suo mutismo. Salvo, ma senza più il dono della parola, le corde vocali sono rimaste lese. L’espressione monocorde e stolida del protagonista (Tahar Rahim) gli fa perdere l’occasione di una grande prova d’attore! Allegerendo un po’ il discorso, tutti ci ricordiamo l’espressività del servo muto di Zorro!

Tornando a questo brutto film, Nazareth, il protagonista, viene a sapere che le figlie gemelle sono vive e sono a Cuba: colà arrivato, scopre che sono in Minnesota, dunque il film ha una parte “on the sea”, poi diventa classicamente americano: “on the road” con ambientazioni fra Steinbeck e Faulkner fino all’incontro con una delle figlie, una sola, perché l’altra è morta… E qui, un ulteriore errore, la figlia sopravissuta dice al padre: “Ma hai me!”, quando mai una gemella direbbe una cosa simile della gemella morta… Un film inutile.

Alla proiezione per la stampa, costellata di defezioni per tutta la durata della proiezione, uno stillicidio continuo, forte è stato il contrasto fra il tonfo del film ed il silenzio che ha accompagnato gli ultimi fotogrammi. Mi auguro di dimenticare presto questo incidente di percorso e mi metto subito in attesa di un buon film di Fatih Akin.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(1 settembre 2014)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

©emilio campanella 2014
©gaiaitalia.com 2014
diritti riservati
riproduzione vietata

 

 

 

 

Pubblicità