Dignità autonome di prostituzione, proprio una gran bella idea #Vistipervoi

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Dignità Autonome 01di Alessandro Paesano  twitter@Ale_Paesano

Bisogna riconoscere a Luciano Melchionna e Betta Cianchini che il format (il sostantivo è loro) Dignità autonome di prostituzione è proprio una gran bella idea.

Il format rimette mano all’idea di spettacolo teatrale come è stata codificata negli ultimi secoli con la stessa drasticità con cui le poltrone della sala vengono staccate dal pavimento e accatastate le une sulle altre per fare spazio, al centro di quella che era la platea, al pubblico e agli attori e alle attrici che si fronteggiano, ognuno rimanendo nel suo ruolo, ma stando nello stesso spazio performativo.

Melchionna e Cianchini prendono il pubblico per mano dal momento in cui entra nell’edificio fino a quando ne uscirà, diverse ore dopo, ridando vita al rito teatrale in ogni suo momento, coinvolgendolo in una esperienza totale.

 

Noi che avevamo già recensito un allestimento di qualche anno fa (lo spettacolo è in scena dal 2007) siamo stati riconosciuti dalla entrenuse che ci aveva già visto allora che ci ha accolti con un inequivocabile bentornato e ci ha fatti sentire davvero come un cliente che torna in un post(ribol)o che è un po’ casa sua.

 

Personaggi che non sono già quelli dei monologhi che andranno a interpretare ma sono una versione simbolica della loro professione: attori e attrici presentati e trasfigurati come prostituti e prostitute di un bordello.
Il pubblico viene chiamato a scegliere tra i venti monologhi della serata (la maggior parte dei quali scritti e diretti da Melchionna, ma non solo) in base agli e alle interpreti che li recitano, basando la propria scelta su considerazioni extrateatrali la simpatia, l’avvenenza di questo attore o quella attrice guidati anche dalle loro capacità seduttive attori e attrici proponendosi al pubblico come prostitute e prostituti di una casa chiusa.

La prostituzione cui allude il titolo è quella della recitazione che lo spettacolo propone in maniera drammaturgicamente geniale come come il vero mestiere più antico del mondo, una prostituzione che si fa metafora ironica del rapporto mercenario tra pubblico che paga per vedere qualcuno, qualcuna, prendere i panni di un’altra persona in una contrattazione continua, senza sosta.

Le performance avvengono infatti in contemporanea, ogni performer ripete il suo monologo più e più volte a sera.
Questa riscrittura del dispositivo teatrale non rimane un esperimento pensato a tavolino ma trova nel teatro così ridisegnato la dimostrazione concreta e fattibile di una diverso approccio al teatro.
La performance sta già nell’accoglienza fatta dagli attori e dalle attrici (prostitute e prostituti che si riconoscono dalle vestagliette che indossano) da quella degli entreneur e delle entreneuse cui richiedere i dollarini supplementari (oltre ai cinque ricevuti assieme al biglietto) coi quali pagare le prestazioni teatrali; sta nell’intrattenimento musicale e, novità di un format che si rinnova sempre, negli allievi e allieve della della Scuola di Recitazione Fondamenta di Roma come “Liette” che, in una mise un poco ginandra e queer, accolgono il pubblico lo coccolano, lo seducono, lo fanno sentire ben accetto appena messo piede nell’edificio.

 

Melchionna presenzia, commenta, balla, canta, da vero padrone di casa (a quale si rivolgono tutte e tutti con soprannome di papi) lasciando agli altri e alle altre tutto lo spazio che meritano (nelle perfomance collettive prima e durante la contrattazione tra pubblico e performer poi) contribuendo a una serata indimenticabile come ci ha detto una signora, che ci ha invitato a ballare dicendo che era venuta per la prima volta e che, una volta sbottonata dal suo ruolo di spettatrice passiva, ha recuperato il rapporto con il teatro in una maniera obliqua ed emancipatoria.

 

La dignità cui allude il titolo è proprio quella che manca a un paese che, come recita una pubblicità progresso concepita dallo stesso Melchionna, se non cura il proprio teatro significa che sta morendo.
In barba all’articolo 9 della Costituzione, che campeggia sul palco, video proiettato nella sua integrità:

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnicaDingità Autonome 00

Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione

a ribadire quel che, evidentemente, ci siamo tutti e tutte un po’ dimenticate.

 

La nostra scelta, casuale e non, ci ha condotto tra quattro monologhi che il caso ha voluto legati dalla stessa matrice di disagio esistenziale.
Paola Sambo dopo aver condotto il pubblico in una delle stanze dell’edificio (per accedere alla quale si è percorso un tratto di strada fuori dal teatro) dove avviene la sua performance, ha trattato con ognuna e ognuno il prezzo da pagare coi dollarini, poi spogliatasi dei panni della attice\prostituta si è calata in quelli del personaggio del monologo I panni sporchi (di Luciano Melchionna che firma molti dei monologhi ma non tutti) con una capacità di concentrazione incredibile.
Sambo interpreta un personaggio monologante che crediamo malato di mente e chiuso in una casa di cura per poi ricollocarne idiosincrasie e sofferenze esistenziali a una atavica e universale condizione di solitudine e di privazione della memoria che le impedisce persino di ricordare il nome del figlio e che, ben presto, capiamo avere colpito una donna di teatro (e tutte le difficoltà umanissime fino ad allora portate alla luce cambiano prospettiva se a farne esperienza è un’attrice).

Ed ecco che la difficoltà di memoria diventa inevitabile metafora di una condizione esistenziale

Sambo restituisce la verità delle emozioni del personaggio che interpreta senza schermo alcuno ponendosi nuda, priva di ogni mezzo del teatro borghese a cominciare dalla distanza tra platea e palcoscenico, il pubblico assiepato intorno a lei a qualche decina di centimetri di distanza. A dare vita alla donna pensata da Melchionna ci sono il sangue e il corpo di un’altra donna che interpreta un’attrice (quella che contratta i dollarini) che recita un personaggio in un apoteosi di recitazione teatrale che emoziona e che ci fa innamorare, del personaggio, dell’attrice che lo recita e anche della donna che interpreta entrambe.

 

Enrico Sortino interpreta un prostituto seducente che sa contrattare con il suo pubblico nell’atrio della stanza dove si svolgerà il suo monologo, con la sfacciata sensualità di un ragazzo di vita (ricevendo da una spettatrice\cliente che ha già finito i dollarini una proposta irripetibile che vorremmo avere fatto noi al posto suo).

Nel monologo Sortino ci regala un personaggio sopraffatto dalle emozioni della vita, tra timore della solitudine, depressione e delirio, un racconto interpretato con una bravura talmente impetuosa da contagiare lo stesso interprete che, non sappiamo spiegarlo in altro modo, si guarda da fuori come fosse seduto tra il pubblico a osservare se stesso e il suo recitare.
Una consapevolezza di bravura, giustificabile perché c’è, che finisce per costituire uno schermo tra pubblico e interprete, una sorta di quarta parete attoriale che non gli permette di mettersi davvero a nudo, di divenire trasparente a se stesso e mettersi al servizio totale del personaggio.

Dignità Autonome 02Agostino Aresu dopo una contrattazione galante, che privilegia l’attenzione della componente femminile del pubblico, alla quale si rivolge anche in inglese, ha interpretato il monologo performance Due punti di Melchionna che declina l’arte del raccontare, delle tante possibilità che l’io narrante ha di dire e raccontare al suo pubblico, con la perfomance fisica (ginnica e nervosa che lo fa cadere e rialzarsi o muoversi con passi velocissimi di lato come fosse un tarantolato, percorso da un’energia coreutica notevole e impegnativa) che costituisce una sorta di reazione fisica alle limitazioni che ogni narrazione incontra nel suo svolgersi perché raccontare implica sempre la celta di dire qualcosa e non qualcos’altro.

 

Alessandro Lui ci ha condotto con sé in uno dei bagni del teatro facendoci accomodare a terra (tanto hanno lavato prima) con una indole e un linguaggio del corpo da personaggio timido, fragile, umile e modesto. Anche la contrattazione si è trascinata a lungo data la timidezza del suo personaggio attore e la sfrontatezza del pubblico che si sentiva in diritto di contrattare fino all’ultimo dollarino.
Il suo monologo La 7ima verità di Gianni Spezzano, lo vede trasformarsi in un giovane abbastanza sicuro di sé che schermendosi dietro la retorica del male comune (voi siete peggio di me) ci confessa alcune verità su di sé.
La prima riguarda il sesso (dall’onanismo assiduo alle fantasie bisessuali, dove l’analità si ferma all’annilingus che riceve dalla sua ragazza senza evolvere nell’insertività che dice di non gradire) facilmente condivisibile e nel quale il pubblico può riconoscersi. Le altre verità (la competizione, lo sfruttamento degli altri, la millanteria, la vigliaccheria), toccano aspetti che possiamo considerare comuni e comprensibili in una visione autoindulgente della vita, di modo che alla fine, la verità  non sono i difetti che il personaggio ammette e riconosce quanto questa incapacità di voler cambiare, nascosta dalla presunta impossibilità a farlo (per giustificare la quale ammette pure che non è colpa di nessuno se lui è così è che è fatto in quel modo).

Alessandro Lui si dimostra sorprendentemente a suo agio nei continui cambi di registro del personaggio interpretato che passa dalla voce sincera di chi si confessa liberamente all’ostentazione dei difetti che, una volta confessati, possono essere mostrati in tutto il loro vigore mentre il personaggio cerca sponda in una comunanza di (dis)umanità.
Un testo capace di mostrare la normalità di un personaggio che. lungi dall’essere un freak ai margini dell’umano consorzio. proprio per questo restituisce il malessere profondo in cui noi tutti e tutte esseri umani e…donnani viviamo o possiamo vivere.
La settima verità del titolo non viene disvelata. Il personaggio invita gli astanti a suggerire loro quale possa essere a un indirizzo mail.

 

Ormai per l’ultima volta nella sala comune (alla quale si torna dopo ogni pillola di piacere) abbiamo assistito alla più bella versione musicale di My Funny Valentine eseguita al violino da H.E.R., abbiamo cantato con Fiordaliso Non voglio mica la luna ci siamo goduti delle clownerie elegantemente acrobatiche, tutti insieme, clienti e prostituti e prostitute, pardon, pubblico e attori e attrici che, sulle note di New York New York, hanno lasciato la sala per salutarci lungo il percorso di uscita abbiamo potuto salutarli tutti e tutte, anche chi non abbiamo avuto modo di vedere.

 

Ed ecco un altro motivo per tornare a vedere lo spettacolo: assistere agli altri monologhi perdendosi ancora in una macchina performativa intelligente e straordinaria che Melchionna e Cianchini hanno inventato in un momento di grazia restituendo dignità a un teatro mai tanto vilipeso come oggi.
In fondo, a restituirgli dignità, perdonate la retorica, ci si è lavorato insieme anche noi pubblico che pensavamo di assistere a uno spettacolo e per una sera ci siamo ritrovati, ritrovate, in scena anche noi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(4 ottobre 2014)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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