di Alessandro Paesano Twitter@Ale-Paesano
Obra (t.l. Opera) (Brasile, 2014) di Gregorio Preziosi da solo ti giustifica un intero festival.
L’Opera del titolo è parola di molteplici sensi: opera prima del regista (classe 1983 ha all’attivo una manciata di cortometraggi) l’opera architettonica che è l’argomento del film, dunque l’opera umana che si cela sempre dietro ogni opera architettonica e, infine, l’opera come eredità umana. Obra agisce con lo stesso sguardo cinematografico questi diversi livelli di discorso tramite una storia semplice nella sua dolorosa icasticità.
João Carlos Ribeiro de Almeida Neto giovane architetto di San Paolo, titolare di una cattedra e di uno studio – dove si lavora ancora coi disegni e non con il pc-, scopre nel lotto dove sta per sorgere una sua opera importante alcuni cadaveri (di operai?) che sono lì da diverso tempo, e sono suoi visto che il terreno è una antica proprietà familiare. Quella non è l’unica eredità scomoda che João Carlos deve affrontare c’è anche quella biologica del nonno, allettato dalla stessa ernia del disco che non gli fa muovere la schiena, mentre una paternità imminente gli fa pesare le responsabilità del futuro.
Girato in un bianco e nero splendido, il film visivamente è un saggio di architettura, che si apre con una lezione di João Carlos nella quale cita un articolo di Charles Jencks che attesta la morte dell’architettura sanzionata dalla demolizione di un palazzo simbolo della pianificazione urbana statunitense, nel 1972 nella città di St. Louis. Ogni inquadratura del film restituisce uno sguardo sull’architettura di San Paolo, sugli edifici, sugli interni, sull’impiego del cemento, sulle palazzine dormitorio, sulle vetrate aggettanti che si sostituiscono alle pareti delle case signorili, sulla cristallizzazione di una differenza di classe e di ceto scritta financo nelle pietre degli edifici che abitiamo.
Se l’architettura è morta quella che resta è l’architettura dei padri e dei nonni, come quelli di João Carlos che agiscono alle sue spalle in maniera diversa. Il padre decidendo per lui sul riseppellimento (si dice?) dei cadaveri ritrovati e quella del nonno che gli ha trasmesso ereditariamente la stessa ernia del disco.
Il film organizza questo discorso tramite una scansione visiva di un nitore formale talmente perfetto da far mancare il fiato, ogni scena del film essendo essenziale a uno o più di questi diversi con-testi ogni inquadratura essendo una fotografia sul reale, tutt’altro che una istantanea ma una foto pensata e ragionata dove il formato panoramico viene impiegato al massimo delle sue capacità espressive. João Carlos è spesso relegato ai lati dello schermo mentre il resto del fotogramma è occupato dal paesaggio urbano, da quell’opera architettonica che João Carlos come tutti e tutte noi abbiamo ricevuto in eredità e nel quale viviamo.
Il film si interroga sul segno creativo umano e sulle conseguenze di quel segno, dunque anche sulle inquadrature del film e sulle conseguenze che hanno sul pubblico chiamato a vederlo. Un cinema etico già nel suo stesso farsi.
Usciti dalla sala la domanda sotterranea sul perché si faccia ancora questo Festival e, soprattutto, perché noi siamo qui a seguirlo, ha avuto finalmente una risposta definitiva, per vedere pellicole come Obra algida e perfetta, implacabile e geometrica come le forme degli edifici che hanno costruito per noi e dentro i quali ci adattiamo a vivere.
(22 ottobre 2014)
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