Festival Roma 2014, “Mio Papà” di Giulio Base, un modo superato di porsi domande sulla famiglia

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papa1di Alessandro Paesano twitter@ale_paesano

Mio Papà (Italia, 2014) di Giulio Base, presentato fuori concorso,  si chiede cosa succede a un bambino di sei anni, quando i genitori si separano e sua madre si rifidanza.
Lo fa con un punto di vista lontano, quello degli anni 70, quando normalmente la prole rimaneva con la madre e l’affidamento era disgiunto. Persino il linguaggio giuridico usato da uno dei personaggi del film, che fa l’avvocata, è ancora quello antico che parla di padri naturali che non esistono più, per legge, dal 2013.

Non si può però negare al film una certa sincerità nel porre la questione e una forza speciale nel sottolinearla che gli deriva quasi esclusivamente dal cast.

Non tanto Giorgio Pasotti, alquanto mono espressivo, quanto Donatella Finocchiaro e Fabio Troiano che interpreta Matteo, il bambino seienne.

Base e Pasotti, che firmano a più mani soggetto e sceneggiatura, non sono capaci di vedere la società di oggi e danno al fidanzato di mamma un background d’altri tempi da operaio sub e alla mamma una disponibilità di tempo da casalinga appena giustificata da una disoccupazione che la vede cercare di sfondare come decoratrice di torte (i donneschi lavori della cucina sono duri a morire…).

L’immaginario collettivo del film è dunque davvero ancora quello degli anni settanta quando l’emancipazione lavorativa della donna era ancora agli esordi e i ruoli sociali ancora strettamente divisi per generi.
Così invece di parlare di nuove famiglie, separate, risposate o, last but non least, non etero Mio Papà torna al grado zero della questione quando, quarant’anni fa, chi si opponeva al divorzio pretendeva che la prole avesse bisogno di una mamma e un papà.

Lo scollamento tra società e storia narrata nel film è però lo stesso che esiste tra la società reale e l’immaginario politico di chi ci governa che usa quelle stese argomentazioni per negare diritti alle coppie dello stesso sesso (anche a illegali colpi di circolari ministeriali) in base alle stesse ridicole pretese di allora (oggi contraddette e dimostrate di mera derivazione maschilista e patriarcale dalla psicologia e, prima ancora, dai fatti).

 

untitledMio Papà dimostra però, in maniera onesta ed efficace, come la genitorialità non sia una questione di biologia (dando un colpo mortale a ogni estremismo religioso e non) ma si basi sulle relazioni, sugli affetti e se Matteo accetta dopo una iniziale e legittima diffidenza il fidanzato di mamma nella sua vita lo fa in nome del rapporto concreto che ha con lui e non per una relazione definita astrattamente.

Il film la fa facile senza provarsi nemmeno a spiegare la totale assenza del padre biologico di Matteo (al punto tale di non mostrarcelo mai in viso) di nuovo secondo una consuetudine narrativa di 40 anni fa (oggi i padri sono giocoforza più presenti di una volta anche quando sono separati o divorziati) ma il racconto di un affetto, di un legame tra un bambino di sei anni e un uomo di trentacinque viene raccontato con grazia e efficacia.

Per un paese culturalmente arretrato come il nostro nonostante le sue semplificazioni e le sue mancanze Mio Papà si staglia come un faro nell’agonizzante panorama della cinematografia italiana.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(17 ottobre 2014)

 

 

 

 

 

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