Dark Vanilla Jungle: aironi, dettagli anatomici, condoms e scabrosità da quotidiano popolare #Vistipervoi

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di Alessandro Paesano  twitter@Ale_Paesanodark vanilla

Penultimo testo in cartellone per questa ricca e intensa edizione di Trend, Nuove Frontiere della scena britannica, giunta alla sua XIII edizione, rassegna a cura di Rodolfo Di Giammarco, Dark Vanilla Jungle è l’ultima fatica teatrale del londinese Philip Ridley, che si è imposta lo scorso anno al Fringe Festival di Edimburgo e quest’anno ha bissato il suo successo al Soho Theatre di Londra.

Il monologo vede la teenager Andrea raccontare, rivolgendosi direttamente al pubblico, i motivi che l’hanno condotta a compiere quello di cui è accusata, l’uccisione del suo bambino e abusi su un soldato.
Il suo racconto, con molte digressioni sulla sua infanzia, riporta una storia di abbandono materno, di abusi sessuali (feste in cui Andrea viene drogata e usata da un cospicuo numero di uomini) e del disperato bisogno di una famiglia.
Un testo non del tutto riuscito a cominciare dal il qui e ora dal quale il monologo parte, il racconto rivolto al pubblico, che non viene recuperato dalla chiusa del monologo, nel quale Andrea, in pieno delirio, fantastica su suo figlio che, divenuto uomo, vola in groppa a un Airone.
Ridley ritorna con morbosa insistenza sui dettagli anatomici degli abusi sessuali subiti e compiuti da Andrea, tradendo un certo gusto per il particolare scabroso che lo induce a scriverne piuttosto che la necessità di una lucida denuncia dell’abuso.
Da questo punto di vista il personaggio Andrea subisce anche l’abuso dal suo autore il quale la descrive con un immaginario erotico compulsivo niente affatto femminile ma molto maschile (e omoerotico).
Ingiustificata oltremodo è la scena in cui, Tyron, l’uomo di cui Andrea si innamora, quello che la costringe agli abusi, per vendetta lancia nel suo appartamento una scatola piena di centinaia di condom usati (letterale nel testo) e Andrea fantastica di assaggiarli tutti per ritrovare il sapore di Tyron (“I feel tempted to suck each condom till I find him”). Se Andrea si è concessa a tutti gli uomini cui Tyron l’ha costretta, per amore, non può che avere un immaginario così orgiastico, sembra suggerirci Ridley, allineandosi al ludibrio di chi in una donna abusata vede nonostante tutto una donna che ci sta in modo disgustosamente maschilista, che offende e sorprende.

Sorprende in un autore come Ridley che ha saputo regalarci dei testi magnifici, tutt’altro che maschilisti (Vincent River, Moonfleece) tutti portati in scena, a Roma, da Carlo Emilio Lerici, che firma anche la regia di Dark Vanilla Jungle.

Un monologo irresistibile per un’attrice che vuole misurarvisi dati i diversi livelli e registri narrativi su cui è costruito, tra il presente nel quale Andrea si rivolge al pubblico, e la rievocazione di quanto le è accaduto in passato.

Monica Belardinelli ne esce a testa alta anche se con un risultato discontinuo.
La lettura del personaggio che va a interpretare, sicuramente influenzata dalle scelte di regia di Lerici, che è intervenuto sul testo riducendolo, non è sempre giustificata dal testo (che non dà indicazione alcuna, le didascalie, rarissime, riportano solamente le pause da fare).

La Andrea di Belardinelli (e Lerici) è più ingenua, più sprovveduta, meno presente a se stessa di quella di Ridley.
La riduzione del testo approntata da Lerici infatti le toglie lucidità e autoconsapevolezza. Lerici elimina alcune considerazioni di Andrea sui luoghi, sui gesti e sui comportamenti delle persone che la circondano, anticipando il delirio autoreferenziale della seconda parte del monologo, cercando così, almeno crediamo, di contenere l’effetto sgradevole di certi dettagli sessuali, e non, che appaiono ancora meno giustificabili in un personaggio che nota le cose.
La discontinuità della interpretazione di Belardinelli sta nel suo oscillare tra una immedesimazione totale nel personaggio, magnifica e convincente, e altri momenti in cui scade, nella recitazione, in un certo pietismo, dove l’intenzione viene detta invece di essere agita o vissuta.
Bisogna riconoscerle la capacità di affrontare oltre a un testo scomodo e feroce la scelta registica di Lerici che la piazza all’interno di una scena costituita da una struttura rettangolare, che occupa tutto il proscenio, all’interno del quale è ricavato un quadrato dai bordi scoscesi sul quale Berardinelli si trova già quando il pubblico entra in sala e sul quale rimane per tutto il monologo.

Sui bordi spessi del rettangolo un materiale riflettente verrà usato come schermo nel finale.

Molto interessante la partitura sonora che costituisce un commento emotivo e narrativo al monologo sottolineando con pochi accordi le emozioni o riproducendo i rumori di quanto evocato da Andrea. Una partitura all’inizio un po’ invadente ma che trova quasi subito la sua giusta misura.

Discutibile la traduzione dall’inglese di Fabiana Formica che cerca di rendere più ingenua la lingua parlata da Andrea con scelte lessicali che si distanziano troppo dall’originale, come quando (ma gli esempi sarebbero tanti), riferendosi al gesto di asciugarsi il sudore, Andrea dice togliere il sudore per poi correggersi dicendo no, non togliere, asciugare, mentre in inglese usa i verbi wipe (pulire, con un gesto ampio) e dab (tamponare).

Rimane il piacere di assistere a un esempio di drammaturgia d’oltremanica contemporanea, portato in Italia poco dopo il suo debutto nazionale, il piacere di vedere uno spettacolo curato e ben allestito interpretato da un’attrice che alterna il brava con il bravissima.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(15 novembre 2014)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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