di E.T. twitter@iiiiiTiiiii
Abbiamo seguito con piacere e con una qual certa commozione la fiction in due puntate che Ricky Tognazzi ha girato per RaiUno sulla vita di Pietro Mennea, uno dei più grandi campioni che l’atletica leggera abbia visto e sicuramente il più grande dell’atletica leggera italiana, insieme a Sara Simeoni.
Un primato mondiale che ha resistito per trent’anni e che dopo trentasei anni è ancora primato europeo (19″72 sui 200 metri piani, 1978, Universiadi di Città del Messico), un titolo olimpico, campione europeo e mondiale, un velocista dalla volontà di ferro rivive in questa fiction ben girata, scritta e tratteggiata con misurato amore, con alcuni attori eccellenti (bravissimo e intenso, a tratti commovente, Luca Barbareschi, che non amiamo particolarmente, nell’interpretazione di Carlo Vittori coach e mentore di Pietro Mennea, divertente Lunetta Savino nella parte della madre di Mennea, efficacissimo il protagonista Michele Riondino, bravissimo il Mennea-bambino del cui nome non c’è traccia sul web), ma che restituisce l’aspetto atletico ed umano (Mennea aveva un pessimo carattere, non lo nascondeva, e la fiction ne fa il centro della sua epopea) di un campione che l’Italia ha amato, distrutto a più riprese dalla stampa sportiva, e che se n’è andato a 60 anni.
Per una volta un omaggio senza retorica. Anche se il solito Aldo Grasso sul Corriere della Sera scrive il contrario, non senza una punta di polemica gratuita comme d’habitude, lui che forse s’aspettava un capolavoro da Oscar (ma gli sarebbe piaciuto)