di Alessandro Paesano twitter@Ale_Paesano
Giunti al quarto giorno di programmazione la decima di Short Theatre ci ha regalato una serata all’insegna del teatro, della danza e della musica.
In girum imus nocte (et consumimur igni) (Andiamo in giro la notte e siamo consumati dal fuoco) titolo in latino palindromo (si può leggere anche da sinistra a destra…) di Roberto Castello si colloca a metà tra la performance e la danza.
Tre danzatrici e un danzatore occupano lo spazio del palco, mentre una musica a loop, ripetitiva e ipnotica, non dà tregua, né a loro né al pubblico, e una videoproiezione sulle tre pareti di scena disegna ombre e luci, sagome e strisce, mentre una sorta di lanugginosa neve scivola via.
Tra un momento di buio e uno di luce (tutti anticipati da una voce che ripete buio e luce) il e le performer cambiano posizione, si dislocano, ricomparendo altrove, prima continuando a rimanere fermi poi colte e colto da un fremito interiore sempre più forsennato, nel dipanarsi della coreografia (che dura un’interminabile pletorica ora), dà adito a micro variazioni nel ritmo, improvvise reazioni fisiche gestuali e mimiche delle e del performer mettendone a dura prova la resistenza fisica.
Illuminato dalla fredda luce di un video proiettore che scandisce spazi, tempi e geometrie, il nero profondo rende diafani i personaggi e li proietta in un passato senza tempo, abitato da un’umanità allo sbando che avanza e si dibatte con una gestualità brusca, emotiva e scomposta, oltre lo sfinimento e fino al limite della trance. Il ritmo martellante della musica e del movimento trasporta poco a poco in una dimensione ipnotica e a un’empatia quasi fisica con la fatica degli interpreti.
Una descrizione così precisa e sintetica dello spettacolo, che traiamo dal programma di sala, che dice molto più di quanto possiamo aggiungere noi che lo spettacolo lo abbiamo visto.
Manca alla coreografia un senso della misura che la fa naufragare in un narcisismo del metteur en scène che, innamorato della propria creatura, non sa separarsene quando servirebbe, reiterando oltre il necessario il suo discorso coreutico-teatrale facendolo diventare maniera.
La durata strabordante e del tutto fuori misura dello spettacolo è una caratteristica che accomuna molti (ma non tutti) degli spettacoli visti… Per parodiare lo slogan di Short Theatre 10 potremmo dire nostalgia della sintesi…
Anche Cannibali di Fiammetta Carena per Kronoteatro si impone per una durata eccessiva che finisce per inficiare il discorso critico proposto (l’esercizio del potere dell’uomo sull’uomo) che, facendosi ripetitivo, perde la sua necessarietà e finisce col riaffermare quel potere che vorrebbe denunciare nell’abuso del suo esercizio.
La messinscena di Maurizio Sguotti è troppo preoccupata di trovare una ragione d’essere performativa sovrapponendosi alla drammaturgia soffocando il discorso critico senza riuscire a tradurre il portato esistenziale di un esercizio di potere (dis)umano esposto solamente dal suo puro versante fenomenologico.
Un uomo giovane e un uomo anziano giocano, prima uno e poi l’altro, il ruolo dell’oppressore e dell’oppresso in un ventaglio di situazioni lavorative, mediche e familiari, troppo vasto per risultare davvero esplicativo scivolando sempre più verso il florilegio di situazioni topiche, prevedibili e inevitabili che, alla fine, rischiano di confermare il gioco di potere proprio per l’ineluttabilità con cui vengono presentate certe dinamiche interpersonali.
Dinamiche avulse da qualunque contesto sociale, politico o, comunque, collettivo, il potere ridotto a una questione di esercizio individuale.
Più che il potere dell’uomo sull’uomo il vero potere inintenzionalmente portato sul palco è quello del testo sui personaggi schiacciati da una messinscena legnosa: il tecnico della consolle a vista sul palco che nomina luce e buio senza davvero farli così che gli aggiustamenti di scena avvengono a vista; un campanello spacciato per gong (a inizio spettacolo i due interpreti sono vestiti come pugilatori prima dell’incontro) che sottolinea i cambi di scena; la continua manovra di due poltrone da parte dei due interpreti senza che ce ne sia mai davvero un bisogno scenico, tranne nella scena finale, sono tutti tecnicismi inutili che allontanano e distraggono il pubblico dalla materia viva che il testo vuole affrontare.
Molto intensi i due interpreti (soprattutto Maurizio Sguotti) che dimostrano una grande disciplina fisica; del tutto fuori luogo l’addetto alla consolle, che alla fine dello spettacolo prende gli applausi assieme ai due veri interpreti.
Youness Khoukhou (coreografo marocchino trapiantato in Belgio) con Becoming (t.l. divenire) ci ha regalato 50 minuti di intensa emozione.
Tre giovani uomini (Youness Khoukhou, Radouan Mriziga, Zoltán Vakulya) sono in scena. Occupano ognuno una delle tre pareti del palco.
Il primo inizia a muoversi sull’impiantito con grandi passi per misurare lo spazio scenico e dargli una forma (e un ritmo) ad ogni passo che compie, ad ogni movimento che fa.
Presto i due altri giovani uomini si uniscono a lui seguendolo passo passo in maniera ravvicinata. In questo movimento-danza al contempo collettivo e individuale l’esplorazione fisica prende la forma di una indagine sull’identità corporea, individuale e collettiva.
Ogni movimento-passo di danza è al contempo l’affermazione di sé e una risposta allo stare nel mondo assieme con le altre persone.
Una esplorazione di sé e dell’altro che è anche una competizione tra corpi (maschili) dove la competizione compare sempre insieme alla solidalità (ci si perdoni il neologismo): i piedi dell’uno possono essere d’intralcio ai passi dell’altro e farlo cadere, ma l’intenzione non è mai quella di sopraffare l’altro, solo di affermare sé stesso ribadendo non una solidarietà astratta, ma un essere solidali perché si fa parte, volenti o nolenti, dello stesso corpo sociale. Una esplorazione dei corpi molto seducente che passa anche per una erotica priva di retorica omoaffettiva per non ingabbiare il desiderio con etichette da marketing.
Le soluzioni coreutiche che Khoukhou trova anche per le particolarità architettoniche de La Pelanda come le due colonne di ferro poste di proscenio (la Pelanda prima di essere uno spazio museale polifunzionale era un mattatoio…) sono eleganti perché semplici ed efficaci, intelligenti perché necessarie alla coreografia e mai strumento di affermazione dell’ego artistico del loro creatore.
In prima nazionale, Becoming, la prima coreografia di Youness Khoukhou (un nome da tenere in mente) si presenta come una splendida sintesi tra danza e teatro dove l’una costituisce il collante dell’altro, proponendosi come il lavoro più interessante (so far) fra quelli presentati a Short Theatre 10.
Ha concluso la serata NicoNote, al secolo Nicoletta Magalotti, una presenza costante tra le dj session che chiudono le serate di Short Theatre.
Da sola sul palco, con una consolle ricca e che si distingue per un tocco artistico (un abat-jour d’altri tempi e la scritta on air che si illumina quando comincia la session campeggiano tra mixer e giradischi) Nikonote intesse una partitura sonora in cui le sue composizioni che hanno già una forma musicale definitiva e sono comparse anche come brani in alcuni suoi dischi (a proposito, sta per scadere il crowfunding per il suo prossimo lavoro Emotional Cabaret) diventano occasione per una performance live dove il mixer e la sua voce creano delle esecuzioni nuove dettate dall’emozione del momento, dal feeling che si crea con il pubblico. Oltre ai brani scritti da lei stessa NicoNote rilegge classici del jazz e della musica classica (da Henry Purcell a Schumann) ma non mancano Luigi Tenco ed Eisler/Brecht ottenendo sempre la reazione entusiasta del pubblico. Un pubblico attento che la conosce, la apprezza, la sostiene e la ama.
Tra gli e le astanti, domenica sera, Youness Khoukhou, Radouan Mriziga, Zoltán Vakulya e Silvia Calderoni, tra il resto del pubblico, un’altro di quei magici momenti che solo Short Theatre sa regalare a chi lo frequenta.
(8 settembre 2015)
©gaiaitalia.com 2015 – diritti riservati, riproduzione vietata