“Bo Summer’s, essere frainteso”: la Pagina dello Zio Bo

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Bo Summer's 04 Pisellidi Bo Summer’s  twitter@fabiogalli61

 

 

 

 

 

 

 

 

 

… eccomi, di nuovo, con il solito timore di essere frainteso. O forse è questo che voglio. Quanto seguirà è dato sotto forma provvisoria o, comunque, se si preferisce, con l’aspetto di ipotesi appena abbozzate che presento con molti dubbi. Ma chi potrebbe, oggi, accampare certezze?

C’è, mi pare, un impaccio diffuso negli interventi letterari attuali. Come se mancasse una direzione e non restasse, allora, che rifugiarsi nelle dichiarazioni d’intenti personali di poetica.

Siamo in un momento di inerzia opaca. A un punto morto. O a un grado zero. C’è stata l’avanguardia storica, c’è stato il 1963, poi il 1968, poi la reazione a entrambi, e i poeti innamorati, e le letture pubbliche di poesia. Oggi, più nulla: non ci sono spinte né controspinte. Ogni voce suona alternata ad altre di segno diverso (non opposto) e insieme formano un concerto indifferenziato, ove tutto è permesso, niente è proibito, e ogni accento viene eliso da un altro, in una grande, innicua equivalenza. Non si produce movimento, neppure di reazione. Gomito a gomito. Tutti in fila.

Tutti sintomi d un declino? È il tramonto del senso della letteratura? Certo, qualcosa sta morendo, anche il confrontarsi e come territorio contaminato, inaffidabile. E molto altro sta cambiando nel gigantesco riequilibrio di fattori strutturali e sovrastrutturali (mai così intrecciati come ora) prodotto dal capitale informatico. Si dissolvono i tradizionali confini fra il “letterario scritto” e le altre forme di comunicazione. D’altra parte, nella rivoluzione culturale che si sta realizzando, il “letterario” è ridimensionato drasticamente, cero, ma non colpito a morte. Il precedente tessuto sociale e civile oppone resistenza e non si tratta soltanto di un residuo del passato: la resistenza è connessa alle strutture profonde (antropologiche) della civiltà.

Il “letterario” coincide con una parte non indifferente della cultura dei popoli moderni, con la loro stessa identità. Così, paradossalmente, può anche accadere che il processo della sua riduzione contribuisca a illimpidirne la funzione. Se, a questo volevo giungere, per un verso il mio “spazio letterario scritto” appare sempre più minacciato d’inquinamento e comunque ampiamente percorso e pervaso dall’extraletterario, per un altro verso appare come costretto a regredire su una trincea estrema, che tuttavia gli è propria e ne qualifica in profondità la funzione: ributtato indietro, tocca comunque un fondo che è suo.

Quale è il senso della scrittura. Risponderei con un aforisma di Blanchot, in L’écriture du désastre: “Veiller sur le sense absent”. È quasi un imperativo, un’istanza cruciale. Il senso non viene alla presenza. E come a convinzione che “in ogni poesia vi è una contraddizione essenziale. La poesia è molteplicità triturata e restituisce fiamme. E la poesia, che riporta l’ordine, risuscita da prima il disordine, il disordine dagli aspetti infiammati”.

Il senso della scrittura consiste, allora, prima di ogni cosa, in quella voglia sul senso assente, nel rammemorare l’originaria infondatezza del linguaggio. Un Io che rinuncia alla propria sovranità immaginaria sul Mondo, che conosce l’abbandono e la nudità, che si rapporta al reale e agli oggetti dal lato della mancanza, del non consapevole, di quello che Lacan definiva il “non-réalisé”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(6 aprile 2016)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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