“Le Concours” della bravissima Claire Simon a Rendez Vous 2017 #Vistipervoi

Altra Cultura

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di Alessandro Paesano  twitter@Ale_Paesano

 

 

 

Fare documentari significa
credere nella rivelazione del cinema,
la rivelazione più semplice e radicale:
che il presente si trasformi in presenza
che un’azione diventi storia
che un uomo diventi un eroe
che un posto qualsiasi diventi un luogo.
È forse più chiaro?
Come vi pare.

Claire Simon

 

 

Non è una cineasta qualsiasi Claire Simon, nata a Londra e cresciuta in Francia, ma una esponente del direct cinema, un modo di intendere il documentario reso celebre in Francia da Jean Rouch.

Con una formazione da etnologa alle spalle con i suoi film documentari ha raccontato i  rapporti  di  potere  (Récréations,  1992),  le  distorsioni del capitalismo (Coûte que coûte, 1995), il ruolo delle donne nella società contemporanea (Les Bureaux de Dieu, 2008), e ha indagato le moderne megalopoli (Géographie humaine, 2013 e i resti di una civiltà perduta (Le Bois dont les rêves sont faits, 2015).

I suoi documentari non si sono limitati a ricevere numerosi e prestigiosi premi ma sono arrivati tutti in sala dove il pubblico li ha potuti vedere e apprezzare.
Per questo genere di film, nonostante una sua recente rinascita, è ancora un fatto d’eccezione.

 

Le concours (Francia, 2016), Leone d’oro come miglior documentario all’ultima Mostra di Venezia, è un resoconto del lungo processo di selezione che porta la école nationale supérieure des métiers de l’image et du son (scuola nazionale superiore dei mestieri dell’immagine e del suono) di Parigi, detta la Fémìs,  una scuola pubblica nata nel 1986 sotto la tutela del Ministero della Cultura e della Comunicazione, a scegliere i 60 partecipanti ai corsi dal gruppo di 1200 persone che ogni anno cercano di entrare.

 

Simon piazza la sua cinepresa là dove serve per riprendere i luoghi e le persone, con la stessa convenzione della cinepresa invisibile del cinema di finzione. Come ci ha spiegato la regista il cinema documentario è sempre cinema, nel quale la recitazione è sostituita dall’improvvisazione come nella musica Jazz, l’improvvisazione delle persone riprese e, vieppiù, quella di chi decide “dal vivo” quali inquadrature fare.

 

Simon ha una enorme sensibilità e intuizione cinematografica nel decidere chi e cosa riprendere. Così, durante i lavori di una delle commissioni, inquadra per tutto il tempo la reazione degli esaminatori e delle esaminatrici mentre la ragazza che sta sottoponendo loro un plot complesso con delle stentate e non chiare relazioni parentali rimane sempre in voice off.

La regista ha scelto di non seguire un particolare gruppo di esaminandi e esaminande o una determinata commissione esaminatrice ma si è espansa a tutto campo attingendo a piene mani a tutta l’umanità, professionale e discente, che ha avuto disposizione.

 

D’altronde Simon conosce bene i meccanismi della scuola dove ha lavorato per diversi anni come una delle responsabili della sezione regia, che sono più di una visto il funzionamento della scuola.

 

Il personale docente infatti non è costituito da insegnati  ma da professionisti del cinema ancora in attività e che dunque possono assentarsi per diversi mesi se chiamati (chiamate) altrove dal loro lavoro.

 

Le commissioni esaminatrici sono formate da altri professionisti e professioniste che non sono necessariamente coinvolte nell’insegnamento (e che non possono essere di nuovo in commissione prima di sei anni). La scelta dei  candidati e delle candidate parte da un punto dal vista della professione: chi verrà formato e formata come personale che lavorerà dopo di loro?
Si tratta di scegliere una discendenza, una eredità e il film indaga proprio sui criteri e le urgenze di questa scelta.

Al contempo, il documentario indaga sulle motivazioni che portano 1200 giovani a voler entrare in una scuola che farà di loro professionisti e professioniste  del cinema in tutti i settori tecnici (suono, scenografia, fotografia)  e artistici (regia, sceneggiatura).

 

Bisogna intenderci però sul verbo indagare: la regia non costruisce un senso su quello che avviene si limita a una registrazione apparentemente passiva ma in realtà molto ricettiva e selezionatrice. Dietro la cinepresa l’occhio di Simon può permettersi di essere curioso e selezionatore perché non deve costruire un racconto ma registrare quello che vede e le interessa lasciando alla sensibilità del  pubblico di valutare e comprendere quello che il film gli sta mettendo di fronte.

 

Senza la pretesa di essere una riproduzione neutra e oggettiva ma partendo invece proprio dalla specificità del suo occhio di regista, di donna e di etnologa, ne Le concours Simon riassume un processo che dura diversi mesi (tra prove scritte e prove orali) e ce lo restituisce in uno streaming of consciousness di due ore (che volano).




Il mezzo cinematografico, il fatto che c’è il dispositivo cinema a riprendere il concorso  rimane come tra parentesi e infatti le domande del pubblico (incontrato dopo la proiezione) vertevano sui criteri di selezione della scuola (qualcuno notava l’assenza tra le prove di selezione di lavori già fatti, al che la regista faceva notare che si devono scegliere persone cui ingegnare e non persone già arrivate) e poco sul mezzo di registrazione che è tutt’altro che neutro ma Claire Simon, che da etnologa lo sa bene, non lo pretende mai nemmeno per un secondo.

Non è l’occhio impassibile e oggettivo della cinepresa quello che il suo film ci restituisce ma l’occhio umanissimo e sensibile di una donna intelligente che ha fatto del documentario il suo strumento di indagine e di lavoro.

 

Un gruppo fortunato di discenti quest’estate potrà seguire uno stage con la regista organizzato dal Queer Film Festival di Palermo. Intanto Rendez-Vous ha permesso al pubblico romano di assistere a uno splendido documentario.
Chissà che nella prossima edizione non dedichi un Focus proprio ai suoi film documentari e di fiction…

 

 

 

(9 aprile 2017)

 

 

 

 

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