“Pina Bausch a Roma” #Vistipervoi più un documentario sulla Capitale che sulla geniale coreografa

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di Alessandro Paesano  twitter@Ale_Paesano

 

 

 

 

 

 

Dopo l’anteprima del 10 Aprile scorso al teatro Argentina, che ha registrato il tutto esaurito, Pina Bausch a Roma (Italia, 2016) il documentario sulla coreografa tedesca scomparsa nel 2009, di Graziano Graziani è tornato il 19 aprile per una sera al cinema Farnese di Roma.

Nato da un’idea di Simone Bruscia e Andrés Neumann, prodotto da Riccione Teatro in collaborazione con l’Archivio Teatrale Andrés Neumann/il Funaro Centro Culturale di Pistoia, il documentario di Graziani restituisce i ricordi e i racconti di alcune delle persone che hanno avuto modo di collaborare con Pina Bausch durante le sue due residenze romane.

E’ stato proprio a Roma che Bausch ha concepito quello standard produttivo che poi ha impiegato in altre città di tutto il mondo. Una residenza con la compagnia di danzatori e danzatrici per dedicare uno spettacolo di danza (un pezzo) alla città che la ospita nella quale Pina si muove con uno sguardo da Flâneuse che tutto registra e restituisce poi sul palcoscenico.

La prima residenza del 1985 ha prodotto Viktor andato in scena l’anno successivo all’Argentina, allora diretto da Maurizio Scaparro.
Poi dopo la residenza di Palermo (l’Italia è l’unica città che vanta ben tre residenze) Pina è tornata a Roma nel 1998  per produrre, l’anno successivo, O Dido sempre all’Argentina, stavolta sotto la direzione di Mario Martone.

Il documentario ricostruisce questo doppio passaggio di Pina Bausch e della sua compagnia a Roma attraverso le testimonianze di chi ha lavorato più o meno da vicino con lei o l’ha semplicemente coadiuvata nei suoi percorsi esplorativi, fatti durante la notte, dopo 12 ore di lavoro a teatro con la compagnia.

 

Come ha spiegato Graziani presente in sala alla proiezione, Pina Bausch a Roma è nato da una ricerca documentale che non doveva concludersi con un film.

L’idea del documentario è sorta in corso d’opera e il documentario ha visto luce trovando la sua forza da due limiti evidenti: quello di essere costituito da testimonianze narrative (tra le quali quelle di Matteo Garrone, Mario Martone, Cristiana Morganti, Leonetta Bentivoglio, Andrés Neumann, Ninni Romeo, Claudia Di Giacomo e Maurizio Millenotti) e il problema di documentazione audiovisiva e fotografica. I diritti sulle immagini e sui video dei suoi lavori appartengono infatti alla Pina Bausch Foundation le cui royalties  sono elevatissime calcolate in base a criteri di mercato e non culturali. Tanti, troppi  soldi insomma, che superavano largamente il budget modesto col quale il documentario è stato prodotto, impedendo a Graziani di usarle per il suo film. (Anche i quasi tre minuti tratti dal film di Fellini E la nave va sono costati più di 5 mila euro…)

Per questo le immagini del primo pezzo, Viktor, nel documentario scarseggiano mentre di O Dido assistiamo anche a cospicui brani della registrazione video della coreografia grazie alla generosità del teatro Argentina che ha messo a disposizione i suoi archivi a titolo gratuito.

 

Il documentario si apre con la visita a uno dei campi nomadi di Roma dove ci accoglie la famiglia che Pina visitò nel 1985. Uno sguardo che Graziani vorrebbe antropologico ma che rimane documentale e di testimonianza contribuendo a restituire, sin da prima dei titoli di testa, la qualità umana del lavoro di ricerca di Bausch.

Graziani sa raccogliere le emozioni e il vissuto emotivo di chi ha lavorato con la coreografa con grande sensibilità.
Divertenti sono i racconti di Matteo Garrone che portò Pina al Gender, un locale frequentato da donne trans (cui Garrone si riferisce purtroppo al maschile) il proprietario del quale, riconosciuta la coreografa, suo enorme fan, si inginocchia letteralmente ai suoi piedi (e lei si inginocchia a sua volta per mettersi al livello dell’uomo).
Divertente anche la testimonianza di Vladimir Luxuria che fece entrare la coreografa a Mucca Assassina (una serata gayfriendly che animava e anima tuttora le notti romane) durante la quale Graziani calca inutilmente la mano montando alcuni fotogrammi delle sigle promozionali di Mucca assassina più per gusto esotico che necessità documentale

I racconti delle scorribande notturne di Pina Bausch nei posti alternativi di Roma oltre a tradire un certo provincialismo delle testimonianze (compresa quella di Cristiana Morganti, danzatrice della compagnia, che ricorda di essersi basita della loro visita al centro sociale Forte Prenestino dicendo di non averne mai sentito parlare come si fosse trattato di chissà quale recondita e misteriosa kasbah) hanno l’inevitabile effetto collaterale di presentare Pina Bausch non nella sua concretezza di coreografa e di inventrice del teatro danza (tanztheater) ma come essere umano dalla notevole aura spirituale, scadendo facilmente nell’agiografia.


La continua preoccupazione di molte testimonianze di voler specificare che l’esplorazione di Bausch negli ambienti sordidi avvenisse con uno sguardo di comprensione e non di giudizio conferma, come ogni excusatio non petita, il provincialismo squisitamente borghese di chi non capiva né allora né oggi, nel raccontarlo, cosa quella santa donna ci facesse tra zingari e travestiti.

Naturalmente la responsabilità delle affermazioni è di chi le fa e non di chi le registra.

La visione reverenziale di alcune delle testimonianze corroborata dai racconti degli incontri notturni di Pina coglie e restituisce più che lo sguardo della coreografa quello di Roma e dei romani e delle romane che raccontano la loro Pina con un’affabulazione tutta romanesca.

 

Mentre alcuni interventi più istituzionali restituiscono le coordinate di ricerca di Bausch e il suo modo di lavorare c’è chi si sofferma su altri aneddoti, come quelli con Fellini per il quale Pina ha lavorato a E la nave va (Italia/Francia, 1983) che riguardano scene di baci appassionati che la coreografa è stata costretta a ripetere molte volte, o l’amicizia che legava la coreografa al regista fatta di pause pranzo a Cinecittà a base di pane e mortadella.
Alla fine Pina Bausch a Roma è più un documentario sulla Capitale che sulla coreografa come ha affermato in sala lo stesso Simone Bruscia di Riccione Teatro.

 

Un’opera modesta dal punto di vista tecnico (soprattutto per la differente qualità audio e video delle varie testimonianze riprese) ma che si fa testimonianza di un certo fervore culturale, oggi assente, della Roma di 30 e 15 anni fa.

 

Un documentario godibilissimo (anche se con qualche minuto di troppo nel restituire la storia della famiglia rom con la quale il doc si apre e si chiude) e capace di cogliere, se non già la cifra artistica di Pina Bausch, delle cui peculiarità il documentario è parco di informazioni, la cifra umana, misurata nell’effetto che la donna prima ancora che la coreografa aveva su tutte le persone che con lei hanno lavorato o trascorso anche solo poche ore.

 

Privo di una regolare distribuzione nelle sale, per la pavidità della distribuzione italiana non perché il film non meriti, Pina Bausch a Roma prosegue il suo viaggio per le città italiane (prossima tappa Milano) concentrandosi su serate-evento nelle quali attirare l’attenzione di un pubblico italiano sempre più pigro e distratto.

 





(21 aprile 2017)

 

 

 

 

 

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