di Damiana Guerra #Recensioni twitter@gaiaitaliacom #Lettipervoi
La drammaturgia è una lettura estremamente affascinante: molti ritengono che essa sia per sua natura un opera “incompiuta” ed il leggerla sia un viverla parzialmente. La metà mancante è presente solo nella sua messinscena ed ogni volta, per ovvie ragioni, è un’esperienza nuova. Personalmente, io amo molto la drammaturgia ed faccio parte di quella schiera che ritiene che possegga essa stessa una dignità e autonomia in quanto opera d’arte. Immergermi nella lettura di un testo pensato per il teatro, in un certo senso, ai miei occhi lo rende più vivo.
Ed il termine vivo riassume la sensazione che permane al termine della lettura della drammaturgia “Possesso” di Abraham B. Yehoshua (Edizione Einaudi del 2001).
Il palcoscenico è “[…], parte in ordine e parte in disordine fatto di scatole aperte, pile e mucchi di oggetti, utensili, elettrodomestici per le pulizie, tazze e piatti, lattine di olio, eccetera” (atto primo, pag. 5). In mezzo a questo, si muove smarrita Rochelle: “sta girovagando per casa, spostando ogni tanto qualcosa da una parte all’altra. Ha diverse liste in mano. Le sue attività si concentrano intorno a due armadi: Rochelle prende qualcosa da lì dentro e ci mette qualcos’altro. Passano in silenzio alcuni secondi. Poi Rochelle tira fuori un grande ombrellone variopinto, lo apre di poco e lo rimette a posto” (atto primo, pag. 5). Rochelle è una vedova che sta svuotando le stanze di casa prima di andare, di sua spontanea volontà, in un ricovero per anziani. Nella casa, collocata a Gerusalemme, transitano i suoi due figli: Ezra, un depresso che non riesce a far carriera universitaria, ed Eva, sempre sull’orlo di un crisi di pianto perché sta divorziando da un marito scoperto all’improvviso “troppo vecchio per lei”.
I veri protagonisti però sono gli oggetti che riempiono la scena: cose accumulate, reperti e ricordi di una intera vita, di una casa “in cui hai vissuto per cinquantanni” (Rochelle, atto primo, pag. 6) e che l’ansiosa Rochelle tenta, per tutto il tempo, di trasferirne al figlio il possesso. Ma Ezra, insofferente sin da subito alle richieste della madre, non vuole saperne e prova ripetutamente di convincere la madre a disfarsi semplicemente di ogni cosa.
- EZRA – Tra una cosa e l’altra ti sarai resa conto che non voglio prendere niente. Non ho intenzione di diventare la tua discarica personale.
- ROCHELLE – Non sei una discarica. Questi che ti sto dando sono tutti oggetti di ottima qualità. Io, cosa me ne devo fare?
- EZRA – Buttali via! Impara a buttare. Non succederà niente. (Atto primo, pag. 22).
Ma il buttare via non è un gesto univoco e isolato. È un simbolo. Per Rochelle rappresenta una chiusura, un taglio con tutto ciò che è stato e quindi intollerabile. Perché, in fin dei conti, ogni oggetto presente in quella casa è per Rochelle un simbolo di un vissuto comune e famigliare. Per questo ora, dopo la morte del marito, le è impossibile vivere con essi e, al tempo stesso, le è impossibile disfarsene semplicemente: è l’unico legame che esiste ancora tra lei è ciò che è morto (il marito, fisicamente, e l’affetto dei figli, entrambi adulti e presi totalmente dalla loro vita quotidiana). “Mi aiuteranno a fare cosa? A buttare tutto. Butterete tutto. Questo lo so fare anche da sola. Non è quello che intendo per aiuto, questa è solo distruzione. Per aiuto intendo prendete qualcosa da qui, perché non vada tutto distrutto” (Rochelle, atto secondo, pag. 45-46). Quello a cui si assiste, quindi, è lo sbriciolarsi delle affettività e una solitudine cupa e senza vie d’uscita: ciascuno dei protagonisti è in preda a una nevrosi che lo fa incerto o insensibile e non incline ad ascoltare le esigenze di chi ha di fronte.
Alla fine del testo s’intravede un barlume di luce in mezzo alla soffocante mania di possesso. Enza si accosta convinto ai desideri della madre e alla memoria del padre perché pare comprendere realmente che questi oggetti (e i ricordi in esso custoditi) impediscono alla madre e a lui di andare avanti. “Lasciamo i liberi i vivi, prendiamo congedo dai morti” dice Enza perché nel momento in cui si muore “la casa è veramente importante in un momento come quello? La morte al momento giusto. Un momento metafisico. Forse è meglio non avere intorno tutte le cose che ti intralciano… per separarsi serenamente dalla vita, non dalle persone” (Enza, atto secondo, pag. 71). Si tratta, tuttavia, di una breve presa di coscienza: al termine del secondo atto entrambi i figli vengono risucchiati nuovamente nella frenesia della vita di ogni giorno e vanno via lasciando una solitaria Rochelle muoversi nel cimitero degli oggetti.
Dicevo. Il termine vivo riassume la sensazione che permane al termine della lettura di “Possesso”. Sì, vivo. Perché tutto quello che si incontra in questa lettura, ogni singolo oggetto, cibo o rottame, pare essere pienamente cosciente di ciò che sarà il suo e il nostro destino. E pare prendersi gioco di chi ha vicino (e noi che leggiamo). Perché, a conti fatti, un pennello indurito resta un pennello indurito. Anche se tuo figlio, da bambino, lo ha utilizzato per imbiancare il tetto.
(5 gennaio 2019)
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