Il Vanesio del Teatro degli Ignoti. Ecco l’ottava puntata

Altra Cultura

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di Giuseppe Sciarra, #ilvanesiodelteatrodegliignoti

Il tempo delle mele a scoppio ritardato parte II

Fate tutto il bene che potete
con tutti i mezzi che potete,
in tutti i modi che potete,
in tutti i luoghi che potete,
tutte le volte che potete,
a tutti quelli che potete, sempre, finché potrete.

John Wesley

Qualche giorno fa ho spiato il profilo Facebook di Federico Maio che non vedevo da anni. Mi ha molto colpito questa frase. Proprio lui scrive questo, proprio lui… lui che è il signore delle erezioni che si provoca infliggendo umiliazioni agli altri. Lui che sputa sulla sensibilità altrui per le sue frustrazioni, lui che non ha cuore e fa a brandelli, in poltiglia, quello altrui. Sarà cambiato? O è l’ennesima dimostrazione di quanto è falso il sedicente attore del teatro degli ignoti con gli altri e con stesso? Le persone che fanno del male rimuovono questo male per non fare i conti con la propria coscienza? O credono che fare del male sia un atto dovuto e che far soffrire gli altri sia un bene, scatenandosi contro chiunque gli capiti a tiro? Ai posteri l’ardua sentenza su questa gente che scrive su Facebook “fate tutto il bene che potete…”: e poi fa il contrario.

***

Federico Maio mi ricordava un bullo che mi prendeva per il culo, Luca Maggiore, il figlio di un carpentiere del paese – che secondo me gliene dava di santa ragione a ‘sto figlio di troia che aveva il diavolo in corpo. Ottuso, maligno e volubile, Luca era un pezzo di merda fuori di testa estremamente violento che cercava di prevaricare con la forza tutti i ragazzini del posto, sottomettendo le sue vittime sacrificali come bestie (al solo scopo di fare del male e assaporare la soddisfazione di nuocere a qualcuno – dicasi banalità del male; stupidità dei troppi maschi alfa di quell’albero secolare della mascolinità deviata, malata, viziata, schifosa ecc… ecc … quanti eccetera, porca puttana)!

Luca Maggiore era a dir poco molesto. Aveva bisogno di mostrarmi la sua forza quando mi incontrava per strada ‘sto figlio di troia. Mi prendeva da dietro e mi stringeva con le sue braccia robuste e tozze, già vecchie nel loro essere capaci di sostenere qualsiasi cosa. Voleva farmi sentire la sua virilità di adolescente arrapato che sbatteva il suo cazzo pietrificato dall’eiaculazione e l’omofobia sulle mie natiche bloccate dalla paura. Era un continuo denigrarmi con la parola frocio che sotto sotto mi voleva inchiappettare, d’altronde “chi disprezza compra, e se è omofobo compra di più”. Fatto sta, trallallero trallallà, che il mio amore infame era simile a Luca Maggiore più nella forma che nei fatti: ad esempio nel tono di voce rauco e insolente, nell’arroganza isterica e nella cattiveria – ci vedevo la stessa follia che deve far scontare agli altri le proprie pene. Luca se era cattivo e lo era per indole, ma anche per la sofferenza patita che aveva cucinato il suo cuore “al veleno”. Come quello di Federico, il mio amore infame.

***

 

Arianna è una cara amica con cui avevo fatto quel famoso laboratorio di teatro su Shakespeare. Di una bellezza quasi gitana: il viso affusolato, la pelle olivastra, i capelli neri corvino, le labbra sottili e ben delineate, gli occhi mediterranei, il corpo longilineo di una modella bella bella bella bella bella, dittatura di geni arabi, ma fino al punto giusto, non uno di più: sembrava una spagnola per quanto era carnale e a suo agio con la sua sensualità sfrontata. Arianna era però allo stesso tempo anche di una sensibilità speciale che la portava dell’alto della sua accecante sensualità sempre a guardarsi allo specchio mettendo a nudo se stessa in modo ammirevole. Ad Arianna parlavo spesso di quell’amore adolescenziale che da un po’ di tempo mi perseguitava: il bullo, l’alter ego di Luca Maggiore. Trascinai anche lei con me nella casa di dio a spiare en passant, tutto quell’amore di cui gli parlavo. Il bello che mi fissava, che mi girava attorno a teatro sapendo già del mio pensiero e dei miei sentimenti nei suoi confronti. Quel bello che di mestiere fa l’attore.

***

Portai Arianna a vedere al Teatro degli Ignoti un specie di recital tratto da un romanzo di Emilio Lassu dove si faceva riferimento alla brigata Sassari che durante il biennio 1916-1917 venne mandata a morire contro i nemici austro tedeschi a causa di un’assenza di strategia militare e della smania di potere di generali del tutto incapaci di dirigere i soldati. In pieno stile italiano. Un tema delicato che Arianna aveva a cuore, visto che il suo bisnonno morì durante la prima guerra mondiale nella quarta battaglia di Isonzo. Scendemmo la scalinata del teatro che era in un seminterrato dopo aver attraversato una poco illuminata Piazzale della Loggia, tra ciechi lampioni e facce pallide della noiosa movida notturna di quella giornata di fine autunno. Lui era già lì coi capelli rasati – i bei ricci da borgataro romano (benché fosse uno scugnizzo napoletano) erano andati via. Aveva una maglia verde militare e dei pantaloncini aderenti. Stava bene il mio amore infame, come sempre. Arianna infatti lo adocchiò subito. “È lui?” Domandò ridacchiando. Annui. ” Bellissimo.” Salutai con un cenno di mano Federico che mi venne incontro. Arianna lo guardava stregata – come non esserlo di fronte a codesta creatura. Per la prima volta Federico mi abbracciò (cosa si doveva far perdonare?) e mi diede addirittura un bacio sulla guancia. Ci rimasi di sasso. (Cosa si doveva far perdonare o cosa voleva dirmi?)

***

Ero in piedi con Arianna nella sala d’aspetto del teatro. Federico usciva e entrava da una sala all’altra piuttosto nervoso, affaccendato nel suo lavoro di coordinazione della serata. Gli davo le spalle. Ero incredulo e felice per il bacio di fuoco. Arianna iniziò a spiarlo.
“Mi sa che ha un caratterino”, mi disse a bassa voce mentre vedeva correre quel fascio di nervi che comunicava con ogni muscolo la sua emotività irruenta da una parte all’altra del teatro degli ignoti. Gli risposi bellamente che secondo me aveva un carattere di merda.

“Annamo bene! Ti piacciono gli stronzi?” Domandò con un filo di ironia Arianna.
“Non lo so”.
“Ma credi che sopporteresti uno con un carattere del genere? O ci vuoi scopare perché è figo?”
“Lo vorrei conoscere bene. Se mi piace così tanto qualcosa di buono ci dovrà essere in lui al di là dell’aspetto esteriore … “. Arianna mi interruppe: “Ti sta guardando!”, sussurrò divertita e il mio cuore già galoppava al ritmo dei miei sogni a occhi aperti. Ero spiato dall’oscurità. Mi chiamava come sempre il mio amore platonico e io cessavo di esistere per lui.
Bruciavo negli abissi dei suoi sguardi, delle sue strane attenzioni.
Bruciavo e speravo in qualcosa che faticava ad arrivare.
Dov’era il bacio del principe? Il mio bene.

***

 

Ma la sua vita chi la conosceva? Chi cazzo era Federico Maio? Ci parlavamo già da un bel po’ di tempo ma non mi aveva mai invitato a uscire. Non aveva mai preso alcun tipo di iniziativa per vederci fuori da quel teatro. Certo potevo farlo anche io ma… Io non ne avevo il coraggio. Avevo paura di provare sulla mia pelle, la sua rabbia. Sperimentare il nostro rancore comune scambiandolo per amore. “Ti sta guardando in continuazione. Oddio!”, esclamò Arianna incredula dopo che lui ci ronzava attorno ossessivamente per la millesima volta consecutiva, come a voler dirmi “Guardami Davide! Io sono qui per te. Sono tuo”.

“A questo ragazzo piaci da morire! È evidente”, disse Arianna, estremamente colpita dalle molte attenzioni che mi riservava il Casanova sanguinario… Mi girai e incrociai il suo sguardo. Federico era molto agitato. Mi guardava e sorrideva come un bambino innamorato che non sa contenere i suoi sentimenti e che per la prima volta è al cospetto di Amore. Il suo corpo chiedeva di essere calmato. Gli tremavano le mani. Si agitava. Ma che cazzo gli stava succedendo, non capivo più nulla!

“Ma che hai fatto a sto ragazzo?”, domandò Arianna esterrefatta da quello che vedeva. Era come se Federico non riuscisse a gestire la sua parte emotiva e la esprimesse senza filtri con tic nervosi, camminate incerte, sguardi da innamorato verso di me. A un certo punto lo vidi impallidire in volto dopo l’ennesimo scambio di sguardi. Avrei voluto abbracciarlo. Baciarlo. Stringergli le mani.

***

Uscimmo da teatro. Ci incamminammo alla fermata del bus. Lui era lì (che bello! L’incanto era fuori dal teatro). Aspettava l’autobus. Provai un lieve sussulto. Dovevo parlargli. Era giunto il momento di tastare concretamente il terreno. Di vivere l’incanto nella realtà e non solo nelle stanze buie delle nostre psiche – pensavamo di averne una a testa. Mi avvicinai a lui facendogli segno con la mano come poco prima a teatro quando ci aveva messo in subbuglio con un bacio.

 

(continua)

 





 



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