Pubblicità
8.1 C
Genova
17 C
Roma
PubblicitàYousporty - Scopri la collezione

ULTIMI ARTICOLI

HomeBo'dcast, a cura di Bo Summer'sLa febbre dell’ombra: Elsa Morante secondo Renzo Paris 

La febbre dell’ombra: Elsa Morante secondo Renzo Paris 

di Fabio Galli
Nel libro di Renzo Paris, Elsa Morante non è più una scrittrice, né un’icona, né un corpo. È un vento. Una febbre che passa da una pagina all’altra, da un ricordo all’altro, come se la memoria non avesse più confini ma soltanto temperature. La favolosa Elsa non racconta, non documenta, non stabilisce. Scivola, si contrae, respira. È un libro che non vuole spiegare chi fosse la Morante, ma lascia che la sua ombra si depositi su chi legge, come una luce che brucia anche dopo la morte.
Renzo Paris la conosce, la teme, la adora. È consapevole di essere uno dei tanti satelliti di quella stella esplosa, eppure non si sottrae alla sua gravità.

Nella trilogia che l’autore ha dedicato alle donne che hanno incarnato la sua epoca — Rosselli, Betti, Morante — questo terzo volume è il più febbrile, il più confessionale, il più spettrale. Là dove “Miss Rosselli” guardava all’intelligenza ferita e “Madame Betti” al teatro della follia e della resistenza, La favolosa Elsa guarda al mito che diventa carne e che, proprio per questo, continua a perseguitare.

Il tono non è quello del biografo né del testimone, ma del sopravvissuto. Paris scrive come chi tenta di liberarsi da un’ossessione sapendo di non potercela fare. Ogni parola è un passo verso un centro che non si raggiunge. Non c’è trama, non c’è evoluzione: ci sono gesti, riflessi, echi. La Morante appare in frammenti: una voce che rimprovera, una mano che benedice, un sorriso che umilia e consola insieme. È un ritratto privo di contorni, e proprio per questo vero. La verità, in fondo, non è mai nelle forme, ma nel tremore che le accompagna.

Paris non finge distanza. Non nasconde di essere parte del quadro, di aver amato, desiderato, subito quella donna che chiamava “favolosa” non per la sua vanità ma per la sua potenza di invenzione. Tutto in Elsa — la sua furia, la sua solitudine, il suo disgusto per la mediocrità — è racconto prima ancora di essere vita. E Paris, che la vita la osserva come una forma di letteratura, restituisce la letteratura come unica vita possibile.

Il libro vibra di un sentimentalismo lucido, di una nostalgia non rassegnata. La memoria, qui, non è rifugio ma combustione: Paris scrive per non dimenticare e, nel farlo, si brucia. Ogni ricordo è un atto di resistenza contro la dissoluzione del tempo, ma anche un gesto di resa. La “febbre da Morante”, come la chiama in un passaggio, non è guaribile: è la prova che la letteratura, quando è vera, infetta.

Lo stile è un lungo monologo attraversato da esitazioni, invocazioni, parentesi liriche. La lingua, volutamente intermittente, alterna il colloquiale all’oracolare, come se la voce stessa dell’autore fosse scissa tra devozione e stanchezza. Si avverte la lezione di Proust, ma anche quella della confessione poetica novecentesca, dove la precisione psicologica cede il passo all’incanto. Paris non descrive: evoca, allude, lascia che l’immagine si deformi, si spezzi, si trasformi in eco.

C’è un dolore sottile in questo metodo: il dolore di chi sa che ogni ritratto è un tradimento, e che l’amore, per esistere, deve tradire l’oggetto amato. Così La favolosa Elsa è anche un’autobiografia mascherata: l’autore, nel tentativo di afferrare Morante, finisce per descrivere sé stesso, la propria impotenza, la propria inadeguatezza di fronte a una figura che non può essere contenuta. È un libro sull’amore per la scrittura e sull’impossibilità di possedere ciò che si ama.

Il ritratto di Elsa che ne emerge è irriducibile: non la madre, non la musa, non la maestra — ma la presenza assoluta. In lei convivono la crudeltà e la pietà, la fame di purezza e la maledizione del genio. Paris ne registra le metamorfosi, ma sa che dietro ogni trasformazione si nasconde la stessa urgenza: la ricerca di un senso nel dolore. L’ombra di Morante, così, si fa emblema di tutte le figure che attraversano la vita dello scrittore senza mai appartenervi del tutto.

Nelle ultime pagine il tono si fa quasi medianico. Paris scrive come se stesse dettando sotto dettatura, come se Elsa parlasse ancora, da un altrove dove la voce non ha corpo ma continua a dominare. Il libro diventa un dialogo con la morte, ma una morte che non chiude: una morte che chiede di essere riscritta, continuamente. In questo, “La favolosa Elsa” è più un rito che un racconto.

Non è un testo per chi cerca spiegazioni, né per chi pretende la biografia ordinata di una grande scrittrice. È un viaggio nell’influenza, nella sopravvivenza dell’altro dentro di noi. Elsa Morante non è più solo la scrittrice di “Menzogna e sortilegio” o “L’isola di Arturo”: è l’idea stessa di letteratura come destino, come rischio, come febbre che non passa.

Paris la osserva come si osserva un dio che è stato amato troppo a lungo. E nel farlo, restituisce a noi lettori la possibilità di una lettura che non sia mai soltanto intellettuale, ma sensuale, affettiva, dolente. La sua Elsa è un corpo che non si lascia seppellire, una ferita che continua a parlare, un nome che non smette di risuonare anche quando l’inchiostro è asciutto.

“La favolosa Elsa” è dunque un libro sul sopravvivere al proprio tempo e ai propri fantasmi. Paris lo scrive con la consapevolezza che la memoria è un luogo infedele, ma anche l’unico in cui gli amori, le passioni, le amicizie non muoiono del tutto. Ed è proprio in questa infedeltà che il libro trova la sua grazia: la letteratura, come Elsa Morante, non appartiene a nessuno, ma tocca tutti quelli che osano guardarla troppo da vicino.

 

 

(22 dicembre 2025)

©gaiaitalia.com 2025 – diritti riservati, riproduzione vietata

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



Roma
cielo sereno
17 ° C
18.6 °
15.3 °
56 %
4.1kmh
0 %
Lun
17 °
Mar
12 °
Mer
13 °
Gio
13 °
Ven
14 °

CULTURA & ALTRO