Bo Summer’s, “Jobo”. Un racconto

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Omofobia Pestaggiodi Bo Summer’s  twitter@fabiogalli61

Voci che attraversano l’aria come folate di buio. Voci secche. Sguaiate. Sferzanti. Parole d’astio e fastidio. Terre rifiorite e rigurgiti.

Brutta checca, frocio di merda. Cose ovvie di questo genere. Voci. Sciabordii. Ma che mi producono un certo quale effetto di sottomissione. Un orizzonte. Un balenìo di senso dissennato.

Un’azione più forte e decisa. Un’azione più clamorosa. O forse soltanto più teatrale. Un rumore indefinito. L’indizio di un pericolo incombente. Come il ramoscello che si spazza o lo scricchiolio e il fruscio di sterpi e di foglie la preda della muta di caccia che la insegue spingndola alla fuga o al terrore paralizzante. Un lieve e sordo strisciare di scarpe con la suola di gomma.

Spostai le braccia all’indietro e appoggiai i palmi delle mani aperte per terra. Per tenermi sollevato verso di lui. Per diminuire così la tensione che cominciava a scavare un solco di doloroso terrore lungo tutta la schiena. Aggrappandomi decisamente al muro restai in piedi e incominciai un poco più velocemente sfiorando con le nocche la recinzione di cemento e sassi ruvidi che racchiudeva un giardino e l’intonaco più compatto delle pareti delle case e la superficie liscia e quasi scivolosa dei portoni. Caddi. Raggiunto. Si chinò allora nuovamente su di me. Mi risollevò afferrandomi per i lembi del chiodo. Accade di tutto. Alla fine strofinò la punta del suo pene contro le mie labbra chiuse proprio prima da lasciarmi ricadere nuovamente a terra.

S’allontanarono e io sentii a lungo l’eco del roco e ottuso mormorio delle loro voci. Quei respiri pesanti. Il suono opaco e ottuso di quelle voci che se non riuscivo a distingure le loro paroe. Sentivo le gocce colarmi lungo il viso e dentro il colletto della camicia. La muta rideva rumorosa ed appagata. L’intonaco del murocui m’ero disperatamente aggrappato mi pareva come sfarinarsi leggero leggero sotto la pressione delle mie dita e la verigine invadeva l’aria e la strada e il marciapiede sommergendo me e tutte le cose intorno a me.

Capii soltanto che probabilmente avevo interverito in una loro impresa. Avevo assunto ai loro occhi non so più se il ruolo del testimonedi un gioco e di un ruolo che mi fece diventare il nemico.

Rimasi così a giacere a faccia in giù. Sul marciapiede.

Questo sta raccontando ora.

Quando fui colpito non ero veramente sorpreso. Me l’aspettavo. Barcollai e caddi pur non potendo seguire quelle confuse argomentazioni potevo capirli. Comprenderne le motivazioni e le più ardite argomentazioni.

Nella muta esisteva un conflitto nascosto e sotterraneo. Forse attendeva solamente l’occasione giusta per esplodere definitivamente contro l’autorità o l’egemonia della violnza che li teneva uniti.

Poi l’erezione cominciò a diminuire ed egli puntò sostenendolo decisamente con la mano il pene molle ma ancora rigonfio nella mia direzione e schizzò verso di me un acre lampo d’urina gialla che mi colpì sulla guania sinistra.

Doveva essere il capo della muta. Si chinò verso di me e afferrò con le due mani il lembo del bavero del mio chiodo e mi sollevò verso di lui. Li avevo sentiti dietro di me. Più che picchiarmi sembrava che volesse farmi sentire il contatto del suo corpo e delle sue mani. Il contatto dei suoi palmi caldi contro la pelle del mio viso. Non volevo sentirmi. Non volevo essere una preda. Non volevo nulla. Non volevo vedere nulla. Picchiò. Non troppo forte.

Non si può sopportare troppa realtà. Con tanta realtà.

Non c’era ai loro occhi un giusto rapporto tra l’attesa e l’inseguimento e l’attacco e la sua conclusione.

Mi sollevai prima sulle ginocchia e sulle mani. Mi rivoltarono in su con la punta degli anfibi. Quello che pareva essere il capo mi lasciò cadere e si guardò intorno. In altre parole guardò i quattro o cinque che formavano la sua muta. Questi a loro volta non guardavano più me ma verso di lui.

M’ero sì abbandonato a lui. Come un peso morto m’ero rilasciato e avevo fatto risalire da dentro di me e dalla profondità del mio secco corpo o dalla mia misera anima la mia morte latente. E l’avevo stasa quella morte latente su di me come una coltre.

Difficile essere più preciso. Stavo lì. A terra e con la nuca appoggiata deicatamente all’asfalto nell’attesa che se n’andassero. Ma quando il loro capo che stava ancora in piedi sopra di me con le gambe aperte ad arco s’abbasso la cerniera dei jeans ed estrasse il pene capii che egli era il capo non solo per la sua capacità di violenza ma perché aveva più immaginazione del resto del gruppo.

Avevo cercato di cancellare tutte queste sensazioni malate ma quel gesto fu una vera riveazione.

M’erano piombati addosso senza che me n’accorgessi. All’improvviso. M’erano capitati proprio decisamente addosso. Sì all’improvvisa. Ma non del tutto inaspettati.

Si congedò da me con un calcio nel fianco e s’unì agli altri.

Lo guardavo e continuai a guardarlo per un tempo che ora non riesco a calcolare ma penso si sia trattato di un minuto o poco più mentre attendeva che il turgore venisse meno. Le sue parole arrochite e confuse e spezzate m’alitavano direttamente sul volto con un sentore aspro. Le loro oci salirono di tono. La mia colpa non era in ogni modo davvero grave. Oppure aveva capito che io ero una preda indegna della sua furia.

In realtà questo non è del tutto vero.

In fondo il colpo non era stato neanche un vero colpo. Piuttosto uno spintone violento in mezzo alle scapole. In fondo il colpo non era stato molto forte.

L’incitamento della muta forse al contrario di quanto avevo pensato e tutta quanta l’eccitazione per la mia acquiescenza avevano inturgidito il suo sesso che sporgeva eretto dai calzoni aperti. In piedi e proteso verso di me e con le gambe divaricate e io stavo a quel punto metà disteso a terra nell’arco delle sue estremità aperte e metà sollevato verso la sua faccia dela quale non riuscivo ancora a distinguere i lineamenti.

Era evidente che s’aspettavano qualcosa di più. Per gli altri la cosa non poteva finire lì.

Era buio ma potevo scorgere bene il corto ciindo di carne proteso come l’emblema del suo petere. Ebbi l’impressione che non volesse farmi davvero male. Dopo avermi colpito m’afferrò entrambe le guance tra le dita. Come si fa certe volte coi bambini. Le strinse. Le mie guance secche e smagrite mentre m’insultava.

Non poteva mica ammazzarmi!

O forse l’avrebbero anche potuto fare ma il capo era arretrato restio non so se difrante al mio silenzio o alla mia inerzia.

Così pensai mentre mi alzavo da terra e m’appoggiavo al muro. Caddi dunque con la faccia in avanti. Avvertii il contraccolpo che attraversava il mio corpo. Speravo nella loro ripugnanza nei confronti della mia passività.

Avevo interrotto il cerchio dei loro corpi sul vagone della metropolitana per passare e per andare oltre e per lasciarmeli deinitivamente alle spalle. Immaginavo che a muta fosse formata da prdatori armati che amano solo le prede vive. M’era parso di cogliere il loro sguardo quando me li ero trovati davanti. Faccia a faccia.

Avevano camminato almeno un paio di chilometri dietro di me e tutto stava concludendosi con un ospintone e qualche buffetto?

L’odore aspro e morbido della polvere della casa riempie le nari e ne sotterra tutti i pensieri.

A quel unto mi tenne sollevato con la sola mano sinistra e mi colpì il viso due o tre volte con la destra.

Questo racconta.

Volevo vedere i loro occhi. Solo guardarli. Cercare in essi la traccia incredibile di quell’oscenità che avevo avvertita nei loro gesti. Che avevo avvertita nei loro atteggiamenti.

Un vagone di metropolitana. Quando è popolato pare sia riempito da tutte le avventure possibili o forse solo sognate e giochi di sguardi non ne mancano. Questa volta il vagone è vuoto. Tranne il gruppo.

Nel solitario ragazzo seduto nel vagone tutte le rogne prendono corpo in uno sguardo del gruppo che incrocia casualmente il suo. L’occhio del gruppo cade sul titolo di un libro che sta leggendo e un gesto quasiasi che sarebbe stato in un altro tempo e in un altro luogo privo di significato.

Uno scompartimento è come una cella monastica. Chiuso.

S’erano fermati in piedi intorno a lui. Formavano un’opaca e compatta cortina di schiene coperte da T-shirt-fruitoftheloom e di gambe coperte di grezza tela blu. Dondolandosi dolcemente avanti e indietro con un’oscillazione che portava il loro pube all’altezza del viso dlla preda e le loro natiche ad urtare ritmicamente contro la mia spalla.

Seduto in una poltrona vicino alla finestra cerca di ricordare ogni dettaglio e ogni lampo di luce nei loro occhi.

Se dovessi tentare un nome per quella sensazione estrama parlerei di una percezione del nulla.

Direi di uno sprofondamento che pareva non trovare ostacoli e che sembrava poter sommergere in sé passato e presente. Scesi dal treno sotterraneo. Facendomi strada ancora una volta attraverso la bufera dei loro corpi.

Sarebbero stati elementi sufficienti per accedere ad un frammento della sua vita. Ad una briciola della sua storia di bravo ragazzo che tenta solamente di leggere un libro in metropolitana.

Quasi potessi far diventare ricordo e quindi in qualche modo remota l’angoscia che m’aveva afferrato e quando lo vedrò venire ancora verso di me e sedersi al mio ianco quel moro ragazzo della metropolitana con la maglietta bianca che lascia lo scorcio al petto villoso e nero e ricciuto di peli crespi e duri sotto la stoffa sottilissima della sua attillata e candida T-shirt in una stupenda impudicizia dopo che una eventuale notte avrà cancellao ogni riserbo?

Protestai perché si erano accalcati addosso a me. Ero curioso anche di conoscere quei volti bastardi che avevano attraversato il mio sguardo dopo la mia reazione.

Quelle immagini di facce non avevano un rapporto diretto con il mio mondo che si stava trasformando in una sensazione di fragilità e di debolezza e di smarrimento. Pareva che non m’avessero sentito. Non si girarono nemmeno verso di me. M’ignoravano. Oppure no.

Non riesco a vedere i suoi occhi mentre racconta tutto questo episodio. In maniera convulsa. Dal tono stesso della sua voce indovino la traccia di un dolore che le parole della sua povera e piatta narrazione non esprimono. Non lo vedo ma posso immaginarlo. Indovinarlo. Immobile con gli occhi fissi davanti a sé. Attonito. Forse impaurito. Non lo so ora. Posso solo dire cosa c’era stato in passato dietro quegli occhi e quella bocca. Quando c’eravamo amati. La rabbia di non comprendere davvero tutto mi riempie di tristezza e mi vela gli occhi.

M’infastidiva il calore dei loro corpi che toccavano e urlavano. Sfregavano contro il mio corpo. M’alzai. M’alzai allora. Esattamente in quel momento. Facendomi largo bruscamente attraverso l’ostacolo dei loro corpi. Spostandoli lateralmente con uno spintone. L’avessi mai fatto. Avevo dato il La a una razione a catena inarrestabile.

Ma a volte il ricordo stesso è uno schermo di malinconia e di dolore dietro il quale ci si protegge da una senazione ancora più lacerante. Come quela che in questo momento è entrata indefinita e straziante dentro di me. Nell’ascoltarlo.

Ma ero ormai arrivato alla stazione.

Ma cosa ha fatto per scatenare la furia? Uno sguardo? Glielo dico. Le domande che emergono dentro di me non hanno risposta ma generano ancora altre domande.

Lo sguardo fisso a terra. La loro presenza era reale. Lo sguardo fisso a terra e come inebetito verso il suo libro. Calpestato dal gruppo inferocito che a questo punto aveva davvero trovato di chi occuparsi.

Il riflesso del suo viso sui vetri disegna ancora più nitido. Il suo magro profilo e le piccole rughe che incurvano le sue labbra. Il ricordo non corrisponde alla realtà. Mai. E la realtà non corrisponde al ricordo. Il ricordo è spesso illusorio. Uno schermo dietro il quale ci si protegge dalla malinconia e dal dolore.

Non aveva detto nulla e non s’era chinato a raccoglierlo quel libro. Il libro era caduto a terra e stava spalancato tra i loro piedi.

Il dolore d’allora. Il dolore che sale alla memoria. Il dolore non ha cancellato nessun particolare ma in lui s’è sommato a quell’indefinto struggimento. Mentre narra.

I suoi occhi e il titolo del libro. I suoi capelli rasati ma nonostante tutto sicuramente neri. Anche la sua carnagione. Olivastra. Come l’impressione di una luce azzurra sul suo viso tenue e silenzioso. Guarda verso la finestra mentre parla. Senza muovere la testa. Senza guardarmi. Guarda un punto fisso. Non so se a cercare la propria memoria o il buio fuori.

Ero sulla metropolitana e osservavo in religioso silenzio un ragazzo che leggeva.

Tutto quanto questo suo racconto è un frammento di passato. Una scheggia già bene incuneata nel presente che ho tentato di trascinare quasi all’indietro nel tempo. Quasi potessi fare arretrare proprio con quell’immagine anche tutto ciò che io sto vivendo. E infine mi chiedo se un passato che sappiamo definitivamente irrevocabile può dare un senso al presente e risvegliarne i mostri solo perché appare anch’esso come mostruoso e come ciò che è stato irrevocabile.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
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