Ivana Müller e Martin Schick & Damir Todorovic, teatro che ci piace

Altra Cultura

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2014-muller-watching-c3di Alessandro Paesano  twitter@Ale_Paesano

Ierisera, Short Theatre ha presentato due spettacoli che illustrano un altro modo di concepire il teatro, la sua forma testo e, soprattutto, il rapporto con il pubblico.

We Are Still Watching di Ivana Müller (di origini croate) pone i posti di platea in un quadrato, così quattro file si fronteggiano due a due, numera i posti, pone dei copioni sotto alcune sedie e fa leggere il testo al pubblico, secondo delle istruzioni dette prima dell’inizio dello spettacolo.

Il pubblico legge il testo con le proprie inflessioni, le proprie capacità o incapacità di dire a voce alta o con una emissione udibile o con una dizione appropriata.

Il testo che si è invitati a leggere trascrive presume e fa dire alcune reazioni e pensieri sul fatto di avere pagato un biglietto e stare leggendo un testo, sulla natura di quel testo, sulla natura di quel dispositivo drammaturgico e sui rapporti tra spettatori e spettatrici.

Dinanzi la responsabilità di portare a termine lo spettacolo non ci si sottrae dal compito affidato e si crea una divertita e divertente solidarietà di fondo dove si perdona l’errore altrui che ha magari è seguito da un errore proprio e dove ci si diverte nel leggere idee, commenti, perplessità su quel tipo di operazione teatrale che magari si condividono, magari no, e al contempo fanno riflettere, come se quelle considerazioni siano di chi le legge e non dell’autrice del testo. E quando dopo un po’ si diventa un pubblico affiatato le battute sul copione (che ora hanno tutti e tutte) sono libere, sta al pubblico leggere quali…

Alla fine quanto il testo è finito si applaude l’un l’altra avendo sperimentato direttamente l’idea che il teatro può essere un’opera collettiva, anche se il testo è stato scritto da qualcun’altra.

Con Holyday On Stage di Martin Schick (svizzero trapiantato a Berlino) & Damir Todorovic (serbo)lo spettacolo comincia quando il pubblico deve ancora entrare in sala. Un tappeto rosso transennato e con un cartello “Artists only” (lo spettacolo è in inglese con sovratitoli) mette alla prova psicologicamente il pubblico già prima di entrare in sala, dove il duo di a441787781_640rtisti perfomer lo invita a riflettere sulla contemporaneità dove l’arte e l’artista sono sempre più collusi con il capitale (sponsor, finanziamenti, endorsment) riproducendo sulla scena una retorica dell’artista che i due performer analizzano con fare ironico ed estremo rigore.

Dopo una finta premiazione, una coppa\premio data loro da Fabrizio Arcuri, in veste di direttore artistico di Short Theatre (lo è davvero…) i due artisti una volta attestata pubblicamente la loro artisticità più per intrattenere se stessi che il pubblico cui si rivolgono compilano florilegi di citazioni, dichiarazioni e definizioni tratte dal mondo reale (da Bush a Abramovic, passando per Jack Nicholson) in una feroce critica alla retorica del successo della società occidentale (che i due autori – perfomer definiscono un vero western) dove l’intertestualità spinta (e sempre disvelata, dei titoli di coda vengono proiettati su uno schermo con i riferimenti di ogni singola citazione impiegata) viene mostrata nel suo agire da collante culturale a un pubblico normalmente considerato una massa di consumatori di intrattenimento (non a caso non si parla più di cultura ma di industria culturale) che una volta tanto è chiamato a impiegare le proprie competenze di conoscitore di testi in maniera critica.

Il dialogo tra i due performer che avviene a base di titoli di film o titoli di canzoni (in inglese, francese e anche in italiano), e la danza improvvisata, in cui uno dei due indossa un tutù blu e la maglietta dell’Unione Europea e l’altro un paio di slip con la bandiera dell’UK, si fanno allusivi di un discorso altro.

E quando si crede di avere individuato nel meccanismo citazionale il fulcro dello spettacolo ecco che quando il ragazzo italiano (avvenente assai) la ragazza francese e lo straniero sans-papier che chiedono di diventare artisti e vengono provinati dai due performer, ogni citazione come la tessera di un puzzle va al suo posto e il palco si fa tropo dell’occidente.
E’ evidente quando alla domanda al ragazzo persiano

– da dove vieni

– dalla Persia,

– no da dove vieni adesso

– dal backstage,

e perché non vuoi rimanere nel backstage?,

– perché avete portato tutto qui lì non c’è rimasto niente…

si sta sì parlando del divano e degli altri oggetti di scena portati sul palco dalle quinte ma si sta anche parlando di altro.
La decisione democratica di chi deve restare e di chi deve andare via perché in cinque sul divano non ci stanno, è presa in base a determinate domande su censo, cultura, capacità, in un gioco dove la donna parte sempre meno avvantaggiata dell’uomo, e alla fine, vincono i due artisti. Anche il pubblico è chiamato a intervenire creando delle nuove categorie in base alle quali decidere a chi andrà l’unico bicchiere di prosecco rimasto, portato dal ragazzo italiano che adesso fa il cameriere, accompagnato dalla ragazza francese, che è diventata sua moglie, conteso anche dal ragazzo persiano nascosto dietro il divano…
E a prendersi gli applausi in scena rimane solo un vincitore.
E che nessuno degli altri torni in scena a prendersi gli applausi è non solo una scelta drammaturgica di una elegante e impeccabile coerenza ma anche un invito a una riflessione seria ma non seriosa sulle nostre possibilità di cambiare procedure e processi e accessi lavorativi e culturali.

E questo sì che è un tipo di teatro che ci piace.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(11 settembre 2014)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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