di Gianfranco Maccaferri twitter@gfm1803
Lucas, un giovane argentino che si offre in cam, accetta l’invito del 50enne Henry, un grosso grasso pasticcere belga, di andare a vivere con lui nel suo Paese. Tra i due s’instaura un rapporto di simbiosi: in cambio della sussistenza Henry se lo porta a letto. Uno dei più validi talenti del “cinema gay” europeo, David Lambert (nel 2010 vinse il Premio della Giuria al TGLFF con il corto con Vivre encore un peu), dirige un film toccante, fuori da ogni moralismo, un inno alla tolleranza globale.
Ecco il film che aspettavo, Je suis à toi (All Yours) il nuovo lavoro di David Lambert, un film che racconta il quotidiano di un uomo che fa il panettiere, di un uomo che fa il prostituto e di una donna che fa la commessa.
Il rapporto cliente e prostituto, il cliente che vuole redimere il prostituto mettendolo a lavorare nella panetteria di sua proprietà e il prostituto che si ritrova a essere schiavo con i soldi giusti per la sopravvivenza. Il prostituto che scopre la differenza tra il dare prestazioni sessuali a pagamento e l’amare un uomo, tra l’essere omosessuali per soldi e la vera sua preferenza sentimentale e sessuale che è l’eterosessualità.
Un film attento alle esigenze egoistiche di ognuno dei tre personaggi raccontati; in modo sottile si riesce a risalire alla loro solitudine interna, che sembra essere un elemento costitutivo della natura umana.
Nel film si propone la prostituzione inserita in una situazione forzata della quotidianità così da perdere la nozione di piacere e la nozione di scelta. Si diventa un oggetto, una cosa e, infine, tutti i rapporti d’amore, come il piacere e la gioia, diventano contorti.
Un film da guardare riflettendo sui diversi messaggi che contiene e nessuno di questi è banale.
David Lambert è davvero molto bravo a dirigere il film e a raccontare gli stati d’animo dei suoi personaggi. Il film, che presenta molte scene di sesso, difficilmente potrà essere distribuito in Italia anche se spero il contrario perché è una storia utile per riflettere su molti aspetti della quotidianità.
Proprio per le storie dei tre personaggi il film risulta essere anche un bel momento di riflessione sulla globalizzazione, sul come i problemi di vita e quelli esistenziali sono simili, in qualsiasi villaggio, paese, territorio uno scelga di vivere.
Il film riesce a essere pacato e potente in egual misura, emotivamente crudo e goffamente tenero.
In “Je suis à toi” si trova un tono interessante e sincero nello scrutare i personaggi e le loro circostanze di vita, il film ha un linguaggio tutto suo, che è simile anche se non identico al realismo del nuovo cinema belga.
Nella sezione “Concorso Lungometraggi” il Torino Gay & Lesbian Film Festival propone un film assolutamente da vedere: How to Win at Checkers (Every Time).
La vita è una partita al lotto. Tre fratelli orfani vivono in un quartiere tra i più degradati di Bangkok: Ek, il capofamiglia, fidanzato fin dagli anni della scuola con il ricco Joi, si prende cura di Oat, undicenne, e della sorellina lavorando in un bar gay. Questo precario equilibrio, basato sull’amore indissolubile che lega i tre, viene messo in crisi quando Ek e Joi corrono il rischio di doversi arruolare: ogni anno, infatti, in Thailandia viene indetta una lotteria per stabilire chi debba entrare nell’esercito. Per Oat l’unica soluzione è anche la più pericolosa: rubare al boss della mafia locale la somma necessaria per poter escludere dalla leva obbligatoria l’amato fratello maggiore. In un mondo dominato dalla povertà sia economica che morale, le conseguenze non potranno che essere drammatiche. Primo film, tra cinema americano e orientale, di un giovane regista che fa proprio lo sguardo innocente del bambino protagonista.
Regia e sceneggiatura del trentaquattrenne Josh Kim, americano ma di origine coreana, ha costruito questo film ambientato in Thailandia prendendo spunto da due romanzi di Rattawut Lapcharoensap.
Il film, ricco di denunce sulle diseguaglianze sociali, è ambientato nei poveri distretti periferici di Bangkok. Ci racconta la povertà e le assurdità di un sistema sociale che merita di essere conosciuto.
Un film drammatico che fa scorrere la storia tra contemplazione e critica sociale. Questo connubio è affascinante e fa risultare il lungometraggio un bel modo per trascorre 81 minuti in maniera intelligente. Josh Kim è un regista che conosce molto bene le possibilità che offre il mezzo e la tecnica cinematografica, infatti ha costruito un film davvero interessante, esteticamente bello e molto istruttivo su una realtà sociale che si conosce poco.
In sintesi riduciamo tutto ad una domanda e una risposta:
Fuggire dalla povertà delle periferie per raggiungere la sommità del grattacielo. Ma a quale prezzo?
“Fa qualunque cosa sia necessaria per vincere, anche se significa che qualcun altro deve perdere”.
How to Win at Checkers (Every Time) è un film agevole e desolante, scritto inglobando momenti di armonia e di furia latente, sentimenti forti e ben indagati. Occorre davvero applaudire a due interpreti rivelazione, alla bella fotografia, al delicato commento musicale.
Il primo film in concorso per il Premio Queer è stato “Onthakan” (The Blue Hour), del giovane regista Anucha Boonyawatana (Thailandia).
Quando Tam, timido ragazzo bullizzato a scuola, conosce lo smaliziato Phum non solo funziona l’attrazione fisica ma nasce anche un Thai mood, un onirico, mutuo stato d’animo. S’incontrano in una discarica e in una piscina derelitta, disturbante universo parallelo, popolato di spiriti e incontri pericolosi. Un film gay e dark, visivamente immaginifico nel quale l’omosessualità trova posto in una dimensione horror. Debutto alla regia di un regista thailandese poco più che trentenne.
Hanno fatto bene a metterlo come primo film del concorso Queer perché la disponibilità che si ha nello stare seduti a vedere per 99 minuti questo lungometraggio, la si può avere solo all’inizio di un festival.
Questo film contiene quasi tutto quello che può vivere un ragazzo gay: famiglia omofoba, padre violento, bullismo a scuola, chat per incontri gay, i conseguenti incontri alla ricerca di sesso e l’innamoramento inconsapevole. Ma lo sviluppo del film si allontana da queste problematiche e vicissitudini reali per affrontare visioni, stati mentali, situazioni dark e horror che scavano nell’inquietudine e nel tormento del protagonista.
L’ambientazione del film ha degli aspetti quasi surreali che aiutano ad addentrarsi in un universo parallelo pieno di spiriti e incontri pericolosi.
Colpi di scena, incertezze angosciose e terrificantemente obbrobriose, eventi spaventosi… il film conduce lo spettatore lentamente in luoghi degradati ma che raccontano pensieri, sensazioni e manie dei protagonisti.
L’amore rivelato, l’innamoramento e l’attrazione fisica giocano dei ruoli non totalmente esplicitati perché il regista lascia spazio alla sospensione dei pensieri e spesso conduce la trama su piani di difficoltosa comparazione: realtà e subconscio.
La regia del giovane Boonyawatana è interessante, ma i tempi e i ritmi sono esasperanti. Il passaggio dal cortometraggio al lungometraggio non può dirsi riuscito perché almeno, e dico almeno, 20 minuti potevano essere tagliati senza inficiare minimamente sull’evoluzione del racconto anzi, avrebbero permesso allo spettatore di godere appieno delle scenografie di Phairot Siriwat, vero punto di forza del film.
Certo che nessuno pensi di andarsi a godere un film ambientato nella magica Thailandia perché gli ambienti scelti sono talmente degradati che il tutto spesso risulta esageratamente e forse gratuitamente esasperante e soffocante.
E siamo a The Dream Children: Steve, presentatore tv di successo, un po’ vanesio, da tanti anni vive con Alex una vita agiata e stabile, animata da qualche scappatella. C’è proprio bisogno, come vorrebbe Alex, di adottare un figlio? Alla fine, lo fanno, ma malamente, rivolgendosi al “mercato nero” di Internet e contattando una ragazza incinta. Il bambino nasce e cresce ma, dopo un po’, la mamma si ripresenta e sono guai. Primo film di un regista teatrale 50enne, commedia semiseria con una buona dose di politicamente scorretto.
Il regista Robert Chuter, australiano classe 1964, nella sua vita professionale ha diretto oltre duecento produzioni teatrali in tutto il mondo. The Dream Children è il suo lungometraggio d’esordio.
Il film è davvero politicamente scorretto verso l’idea della coppia gay monogama felice che sceglie l’adozione di un figlio. L’ambientazione è in Australia agli inizi del nuovo millennio in cui l’adozione da coppie dello stesso sesso era illegale (così come lo erano le unioni civili gay). Perfetta possibile trasposizione nell’Italia di oggi.
Il film è stato fatto nel 2009 ma la distribuzione è arrivata solo nel 2014 e nel frattempo il Parlamento australiano ha legalizzato l’adozione e le unioni civili.
Un film bello, con aspetti drammatici ed altri divertenti, un’opera che può essere utile per riflettere su tematiche italianamente oggi all’ordine del giorno nella comunità omosessuale.
É cattivo, graffiante, dissacratorio verso il focolare famigliare gay.
Mi sono divertito, mi ha fatto pensare, mi ha provocato contraddizioni morali, mi ha piacevolmente colpito per i modi in cui ha raccontato il fare l’amore tra i due protagonisti e il sesso senza senso fatto con estranei alla coppia.
Un film ben costruito, speriamo che riesca ad avere una distribuzione italiana.
(2 maggio 2015)
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