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Con “Junun” la musica arriva alla festa del cinema. Ma il documentario dov’è?

junundi Alessandro Paesano    twitter@Ale_Paesano

 

 

 

 

Nella primavera di quest’anno il regista Paul Thomas Anderson insieme al suo amico Jonny Greenwood (il chitarrista dei Radiohead), e il musicista israeliano Shye Ben Tzur si sono recati in viaggio a Rajasthan nel nordest dell’India, dove sono stati ospitati dal Maharaja di Jodhpur, nella fortezza del XV secolo di Mehrangarh. Lì con l’aiuto di Nigel Godrich, produttore dei Radiohead e un gruppo di musicisti scelti da tutto il subcontinente indiano, Ben Tzur ha lavorato per tre settimane al suo nuovo disco che uscirà per l’etichetta Nonesuch nel prossimo novembre.

Mentre il gruppo di musicisti ha allestito uno studio di registrazione nella fortezza e per tre settimane hanno registrato le musiche per l’album, Paul Thomas Anderson ha girato un documentario cui ha dato il nome di Junun (Stati Uniti, 2015), una versione alternativa della parola junoon che nella lingua araba, persiana, urdu e hindi significa mania o pazzia d’amore.

Musicalmente il film è di un impatto unico: la musica dalla partitura, complessa ed emotiva, prodotta da strumenti classici e antichi declinata con i suoni moderni del basso e della chitarra è emozionante e travolgente. Junun però come film delude completamente.
Nulla ci è detto della musica o degli strumenti ripresi, della loro provenienza geografica o del suo significato culturale e storico.

Nulla ci è detto dei testi (di cosa parlano le canzoni? Ah saperlo!) cantati da Ben Tzuer e alcune cantanti che non vengono riprese con la stessa insistenza dei musicisti che Anderson ci mostra nella loro fisicità magra e panciuta, giovane e anziana, bella e brutta.

Nulla ci è detto della diffusione di quella musica adesso e allora (Popolare? Colta? Borghese?).

Nulla sappiamo del processo creativo di Ben Tzur; vediamo solamente il gruppo suonare già dopo che si è messo d’accordo, dando l’impressione che la musica emerga spontanea e non sia invece il risultato coordinato di un intendo, di una volontà di una serie di prove.

L’occhio (e l’orecchio) di Anderson non potrebbero essere più etnocentrici presentandoci questa musica secondo la retroica stantia della musica pittoresca (uhhh ma che buffi strumenti, uhhh ma che buffe emissioni vocali, ahhh questi indiani!!!)

Anderson si limita a fare delle riprese dalla qualità anche discutibile (soprattutto a causa di un cavalletto duro che fa muovere la videocamera a scatto) secondo l’estetica di youtube: quella che consente a chiunque, dati i prezzi abbordabili anche di attrezzature semiprofessionali, di girare un film delle vacanze.

Qui l’esotismo è amplificato da una videocamera montata su un piccolo drone che permette di effettuare delle riprese aeree quelle sì sorprendenti della fortezza…

L’effetto è lo stesso dei filmini in superotto degli anni 70: nessuna organizzazione nelle riprese fatte, nessuna glossa su quanto vediamo e udiamo; tutto è garantito e si regge sulla datità delle riprese come se il dispositivo di registrazione fosse garanzia sufficiente e autonoma per l’informazione da veicolare (senza la quale , non esiste documentario): un dispositivo nascosto e mai presente a se stesso.

Nel film vediamo piazzare i microfoni e le attrezzature tecniche della sala di registrazione, ma mai quelle necessarie al regista per effettuare le riprese video (per tacere dell’audio: autonomo è mutuato da quello per la registrazione dell’album?), come se il film si facesse da sè e non necessitasse di un apparato tecnologico altrettanto complesso di quello audio.

Fastidioso nella sua presunzione di mostrarsi trasparente e noioso esattamente come i filmini delle vacanze degli amici, anche quando questi amici si chiamano Paul Thomas Anderson.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(17 ottobre 2015)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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