di Alessandro Paesano twitter@Ale_Paesano
Patricia Highsmith pubblicò The Price of Salt (poi ripubblicato come Carol) sotto lo pseudonimo di Claire Morgan nel 1952.
Il romanzo, parla di un amore tra donne che non va a finire male, e divenne per questo un libro di riferimento per tutte le donne lesbiche del decennio e oltre, continuando a essere pubblicato da piccole case editrici femministe quando l’edizione ufficiale era esaurita (vendette in tutto oltre un milione di copie).
Todd Haynes porta sul grande schermo questa storia d’amore impossibile, tra la ricca e sposata Carol, madre di una bambina piccola, e Therese, giovane commessa (nel romanzo studente di scenografia) ambientata quando le donne dovevano ancora liberarsi dai ruoli di mogli e di madri figuriamoci se avevano la libertà di vivere una relazione lesbica.
Haynes però, complice una sceneggiatura non proprio felice (scritta da una donna…), si concentra più sulla ambientazione storica che sulla sostanza della storia. Così da un lato ci offre una fastosa e ricchissima ricostruzione degli anni 50, dalle scenografie ai costumi, dalle automobili ai giocattoli, dalle canzoni alle sigarette, con una mania per i dettagli che ricorda quella britannica dall’altra si gingilla con i topoi narrativi dei film americani di allora.
Per la prima ora di film le due protagoniste si frequentano senza dirsi nulla, nemmeno sui reciproci sentimenti, in un racconto pieno di allusioni e di omissioni che ricorda il modo in cui si parlava di amore fra donne nella Hollywood di una volta (un esempio fra i tanti, Quelle due di Wyler, del ’61).
Poi inaspettatamente e inopportunamente compare una scena di sesso, completamente fuori registro, nella quale Haynes costringe Rooney Mara a esibirsi in un inutile e umiliante topless mentre Cate Blanchet le pratica un cunnilungus perché quel che la sceneggiatrice pensa che il pubblico non voglia vedere di una storia tra donne non è l’amore, ma il sesso (cosa fanno?).
Il resto del film non ci mostra nulla sulla condivisione affettiva delle due donne la cui complicità è restituita esclusivamente da superficiali comportamenti femminini, come scambiarsi il rossetto, mettersi il profumo, cenare insieme, andare a fare un viaggio, sfiorarsi una spalla (che allude al sesso e non all’affettività…
Solo verso il finale il film è più a fuoco quando Carol decide di non umiliarsi più negando il suo orientamento sessuale pur di vedere la figlia (ben diversamente che dal romanzo dove subisce una punizione esemplare) decidendo di rispettarsi e vivere una vita vera (che madre posso essere per mia figlia se non riesco a vivere per quello che sono? dice al marito e agli avvocati nella scena più bella del film). Carol rimane così a metà tra il revival degli anni 50 (pruderie lesbofobe comprese) e il racconto grande di un amore tra donne senza sapersi davvero decidere.
Grande assente è la natura profonda di una affinità tra donne che il film non mostra, non racconta, non narra, facendo del sesso l’unico mezzo con il quale una donna lesbica agisce la propria identità ben diversamente che nel romanzo da cui è tratto.
Nel 2015, nel paese che ha per decreto federale ha esteso il matrimonio anche alle coppie dello stesso sesso, questo film a chi serve?
Forse solamente all’ego del regista che vuole sentirsi dire che è bravo.
Beh, magari da noi anche no.
(22 ottobre 2015)
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