La Pagina dello Zio Bo: Bo Summer’s, Dialogo in versi, IV

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Fabio Galli 07di Bo Summer’s  twitter@fabiogalli61

 

 

 

 

 

 

 

 

Prepotenza del verbo e invadenza del dire sono punti davvero focali in qualunque educazione poetica, ove le nominazioni effettive, la purissima matrice del dire, contrastano con la ruvidezza delle parole, più o meno violente.

Oltre al totale asservimento fisico, alla brutalità pornolalica, il poeta vuole squassare il suo stesso ordine interiore e annullare la pochezza della recita affabulatoria, smantellando la mente. La scrittura, umiliata esecutrice, è deresponsabilizzata da qualsiasi colpa del dire, mentre viene portata a confondere dolore e godimento linguistico.

Io-lirico è inserimento di considerazioni estemporanee e rare battute di dialogo col reale, sempre senza alcuna avvisaglia d’interiazione. Il poeta approva il comportamento di tutte le parole pur domandandosi se sia corretto, ancora, oggi, il “fare” poetico per godere dei tanti oltraggi al suo essere pudore nell’annunciare.

Un’accesa dimensione quasi sensoriale che porta epifanicamente al suo stesso passato, a ritroso nella falsità delle vecchie relazioni del dire assoluto fino a giungere alla posta in gioco di verità del presente di foucaultiano ricordo.

Per quanto la poesia cerchi di ridurre il rapporto a puro esercizio di narcisismo egoistico, il piacere del gioco linguistico subentra principalmente in una dimensione tutta psichica [quai onanismo fosse della parola] e, per quanto la poesia si veda lontana dall’attaccamento al vero reale, raggiunge un interno ed eterno riposo manifestandosi quale richiesta di un completamento reciproco con il poeta stesso, risposta ideale agli imperativi tutti.

Ma qui il desiderio dello scrivere è meno materialistico. Il poeta chiede, infatti, ciò che la poesia può dare, ovvero una traduzione dell’atto dello scrivere: come una libertà dimenticata e andata, congedata dal bacio minutale, in balia di quanto accaduto e deceduto.

L’io-lirico non si stupisce, mai. Solo questo senso dello scrivere esercita un simile potere. Niente altro e imputa la sua terribilità nel godere all’intasamento mnemonico della parola desiderata, che non si straccia per lasciare spazio al presente storico.

Solo nell’ineffabilità del poetare si vince la resistenza della mente che si sente compresa e presa per cosa realmente è, un intendimento che supera gli stilemi.

Essere in completa balia, fa saggiare l’esperienza della morte, da cui ci si risolleva di colpo col godere: ancora una volta, il superamento del principio di piacere freudiano porta l’io lirico a non ricercare affatto il proprio bene, ma a rincorrere ciò che intacca la capacità fisica ed emotiva di mantenere un equilibrio interno possibile.

 

 

 

 

 

 

 

(22 aprile 2016)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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