di Alessandro Paesano #RendezVous2019 twitter@gaiaitaliacom #Cinema
La prière (t.l. la preghiera) (Francia, 2018) di Cedric Kahn racconta il percorso di disintossicazione dall’eroina del giovane Thomas che giunge in una comunità di soli uomini basata sulla preghiera tenuta da ex tossicodipendenti e alcolisti. Thomas impara a fidarsi degli altri e trova anche la solidarietà femminile e forse l’amore. Incrocia anche la Fede alla quale preferisce l’amore per una ragazza.
La forza del film sta tutta in Anthony Bajon che interpreta Thomas, ruolo per il quale ha vinto l’orso d’argento a Berlino 2018 e negli altri e altre interpreti compreso il cameo di una irriconoscibile Hanna Shygulla, senza trucco e col velo sui capelli, nel ruolo della suora benefattrice che finanzia la comunità.
Ambientato nella natura delle alpi francesi il film parte con un registro realistico (le crisi di astinenza di Thomas, la sua reazione emotiva alle rigide regole della comunità) virando presto verso la commedia idilliaca complice una ambientazione rupestre che dà al film quel tanto di esotico e pittoresco da farlo apprezzare al pubblico francese radical chic cui il film evidentemente si rivolge.
La priére durante lo svolgersi del suo racconto tocca infatti dei nodi importanti senza provarsi mai a scioglierli. Quando mostra certa ipocrisia cattolica, mista a sadismo e umiliazione, nelle regole della comunità, per esempio quella che obbliga i ragazzi a chiedere scusa agli altri per quel che sono e per quel che fanno, il film si limita a registrare questi fatti senza reagire alla enorme violenza psicologica che la comunità applica, propone, diffonde. Potrebbe trattarsi di un male necessario per chi è tossicodipendente, o, al contrario, un sopruso fatto da persone che non hanno competenze mediche o psicologiche (hanno solo un passato di dipendenza). Il film però tace e ci racconta questi fatti restituendoceli con la stessa impassibilità con cui ci mostra gli splendidi panorami di montagna. Una ambiguità insopportabile che il film reitera come quando ci mostra, senza soluzione di continuità i lavori che i ragazzi svolgono in comunità siano essi lavori agricoli per conto terzi sia quando si tratta di una sorta di lavori forzati, scavare buche e poi riempirle, registrando queste due cose completamente diverse sempre sotto la stessa categoria di “lavoro”.
Una ambiguità della quale il regista, presente in sala dopo la proiezione, non si rende conto e non capisce. A una nostra domanda sull’argomento ci risponde in maniera evasiva. Lo stesso fa con un’altra ragazza che in francese gli chiede cosa ne pensa lei di tutta la violenza presente nel film che l’ha messa a disagio. Kahn le risponde chiedendole se lei, la ragazza, a quella violenza ci ha creduto o no come se il disagio nascesse da una improbabilità delle situazioni e non dalla totale impassibilità del film dinanzi quella violenza.
Le ambiguità del film non si limitano alle ombre non indagate della gestione della comunità (i cui soprusi, nella vita reale arrivano purtroppo sovente sulle pagine dei giornali) ma toccano tantissimi altri elementi che qui possiamo solamente elencare: la sprovvedutezza dei ragazzi in comunità che diventano padri spodestati loro malgrado o credono di essere sopravvissuti a una caduta in montagna grazie a una preghiera fatta per l’occasione tradendo un sottile paternalismo che rimane nascosto tra le pieghe di una impassibilità che alla fine si fa ipocrita quanto la gestione cattolica della comunità stessa.
C’è infine una ambiguità ancora maggiore nel film quella che verte sulla fede cattolica che per il film sembra essere una questione secondaria.
I ragazzi che scelgono di andare nella comunità e quelli che vi sono costretti non sono lì perché quella comunità si basa sui principi del cattolicesimo ma perché quella è comunque una comunità di disintossicazione.
Nel percorso di disintossicazione non sembra importare il tipo di comunità in cui disintossicarsi. Come se per potersi disintossicare non ci si possa sottrarre alla preghiera (che è il titolo del film) cattolica (non abbiamo mai ascoltato tanti ave Maria, Segneur e Gesù tutti insieme al cinema e nella vita reale), religione che sembra un dato di fatto, come la neve sulle montagne, e non il prodotto culturale dell’essere umano dal quale ci si può sottrarre eccome, con tutto il rispetto per chi decide di rivolgervisi.
Questa indifferenza al portato più profondo della fede, che non significa solamente credere in un dio (o credere in qualsiasi altra cosa come millanta Kahn in sala quando dice che non possiamo prescindere dalla fede giocando furbescamente con una inesistente polisemanticità della parola fede) ma accettare i valori della religione Cattolica, che sono, tra le altre cose anche sessisti e omofobi, è il limite maggiore di un film che alla fine, si riduce alla parabola poco credibile di un giovane ragazzo tossicodipendente che si libera presto dell’eroina e vuole farsi prete perché crede che dio lo abbia salvato quando si è perso tra le montagne innevate. Ma alla fine al sacerdozio preferisce una ragazza.
Più che una preghiera una parabola.
(5 aprile 2019)
©gaiaitalia.com 2019 – diritti riservati, riproduzione vietata