di Giuseppe Sciarra #ilvanesiodelteatro
Il tempo delle mele fuori tempo massimo (III parte)
“Che fai di bello torni a casa?”, domandai alla mia favola.
“Non lo so! Sto qui!”, rispose seccamente Federico come se gli stesse dando fastidio un rompiscatole qualunque che si doveva togliere dai coglioni. Ma come? Gli sguardi, il tremore, quell’evidente interesse per me a teatro non erano improvvisamente più nulla per lui? Evitavo di incrociare lo sguardo di Arianna di cui sentivo il respiro lento, lo stupore…
“Noi stiamo andando a un locale. Vuoi venire con noi”?, glielo chiesi più per rassicurarmi, per dire a me stesso che non avevo preso un abbaglio in quel teatro, per confermare a me stesso che quell’attacco gratuito e quell’aggressività infantile facevano parte del suo modo di essere. Non potevo sopportare l’idea che mi stesse attaccando.
“No. Grazie! Non ne ho voglia!”, rispose Luca Maggiore alias Federico Maio, sempre più inspiegabilmente irritato.
“Vedo che a teatro lavori molto”, dissi, cercando disperatamente di rassicurarlo sulle mie buone intenzioni, pur di riottenere quelle particolari attenzioni che avevo ricevuto poco prima. “Si lavora molto. Ci diamo tutti da fare.”, esclamò Federico con tono brusco, girando la faccia dall’altra parte per tagliare corto. Ma che cazzo stava succedendo? Era impazzito? ‘Ma come a teatro mi baci e poi … mi tratti di merda? Era il bacio di Giuda quello… Un bacio senza senso, come tutto il resto dello show che hai fatto davanti a me e la mia amica’.
“Bello lo spettacolo di stasera non conoscevo la vicenda.”, incalzai fintamente incurante dell’atteggiamento cafone di Federico- mentre dentro morivo della sua superbia, come se gli fosse dovuto prendere a bastonate la mia dignità. Federico si girò di scatto verso di me e con violenza rispose: “Si bello lo spettacolo. Sono stati bravi. Sta arrivando l’autobus. Devo andare via!”, come a voler dire ‘levati dal cazzo! Chi ti conosce?’; e tutta quella scena di prima – continuavo a chiedermi – che senso aveva allora? Federico mi aveva mandato praticamente a fare in culo, così, perché gli girava adesso fare questo, per giunta davanti la mia amica Arianna scandalizzata da quel cambiamento di atteggiamento inaspettato, cafone, arrogante e ingiustificato.
“Manco l’avessi molestato! Ti ha trattato come se lo stavi molestando!”, mi disse dopo camminando.
“Ma perché si è comportato così?”, le chiesi. Ero a pezzi. Preda dell’ansia e del dolore per essermi risvegliato bruscamente da un sogno.
“O è schizofrenico o forse certe attenzioni te le vuole dare solo a teatro. Fuori non gli interessano. In quel caso è un narcisista della peggior specie”; era l’aforisma di Arianna, chiarissima sotto la luce di un lampione che mi spingeva a vedere ben oltre la nebbia dell’immaginazione.
“Forse ha qualcosa da nascondere”. La buttai lì, anima a pezzi e voglia di far male. Anche io.
Me lo dovevo aspettare! Dovevo capire sin da subito che c’era qualcosa che non andava! Con lui non avrei oltrepassato il cancello del paradiso e me lo dimostrò in presenza di Arianna alla fermata dell’autobus. Se al Teatro degli Ignoti il tempo si era fermato e Federico viveva solo per me, almeno così credevo, agli occhi del cielo, lontani da quel teatro dove vita, morte e sogno si confondevano penetrando nelle mie viscere e portandomi a credere che tutta la mia vita avrebbe avuto senso solo in quel luogo, mi scontrai con le realtà. La realtà non è l’anima. La realtà l’anima se la mangia.
Ci rimasi male per come si comportò Federico Maio. Il giorno dopo l’orrendo incontro digiunai per un giorno intero come se fossi in lutto e dovessi punirmi; non riuscivo a scacciare un’idea di morte che non mi faceva ingerire cibo e mi diceva di andarmene, via. Un’idea che conoscevo bene. Volevo andarmene perché pensavo che Federico Maio fosse la mia unica possibilità, e che senza di lui non avrei avuto nessun senso: ‘Non ci sarà nessun altro, stupido frocio! Perché per te ci sono solo gli avanzi, gli avanzi dell’amore, gli avanzi delle occasioni … Se un’occasione ti capita è preziosa, vitale. Se due sguardi t’hanno graziato, tre ti avrebbero giustiziato’. Secondo me stavo perdendo la mia occasione. Era il patibolo. Dove avevo sbagliato? Mi sembrava assurdo che mi avesse trattato a quel modo. Stavo impazzendo e soffrivo. Perché non aveva pietà? Voleva banchettare con le mie interiora?
Mamma mia quanto ho pianto! Mi ucciderei! Perché mi fa questo? Perché non vuole conoscermi? Perché mi manda messaggi contraddittori? Te lo dico io il perché, Davide D’Antuono, perché sta giocando. Ti ha preparato una lapide. Ti ci vuole mettere dentro. C’è gente che dall’amore vuole morte e mangia i cadaveri. Ti sta uccidendo con l’amore per mandarti all’altro mondo. E tu lo lasci fare.
Tormentati, instabili, schizofrenici, violenti, invidiosi, pericolosi, assassini, gay repressi. Spesso assai mascolini, dalla fama ben congegnata di Don Giovanni navigati, conclamati e (segretamente inculati). La repressione può essere per vigliaccheria o necessità. Gli infelici giacché crudeli con la propria anima lo sono ancor più coi loro simili, soprattutto con quelli che osano viversela … la loro omosessualità.
***
Ho cercato di indagare, capire, che fama avesse Federico Maio. Nell’accademia più blasonata di Roma. Gabriele De Angelis, suo compagno di accademia qualcosa me l’ha detta. A lui non volevo dirlo che mi piaceva Maio, perché non si sa mai, ma sono stato costretto a farlo, seppur per vie traverse con “ Mi sembra un po’ gay. Quante è carino. Ma che tipo è?”…
“Federico è bisex! Gli piacciono uomini e donne. In accademia ci ha provato con tutte le ragazze della nostra classe. Avevo paura che ci provasse pure con la mia. Per tanto tempo non gliel’ho presentata apposta. “
“Fede è uno giocherollone. Mi fa tanto ridere. É tanto affettuoso.”
“Lavorava alla gay street. In quel locale. Come si chiama? Ah si! Outing!”
Merci Gabriele. Dalle tue preziose informazioni e da quello che ho potuto appurare ho capito che Federico è un represso di quelli che si dicono aperti con un maschio solo per scopare ma non per avere un’affettività, quella ce l’hanno con le donne. Un colpo al cerchio e uno alla botte e mettono d’accordo i loro istinti coi loro doveri da uomini veri.
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Giuseppe aveva ventitré anni. Dieci meno dei miei. Vivevamo nella stessa casa e inizialmente ci siamo per un po’ di tempo ignoranti, se non evitati. Non so perché. Forse fui molto precipitoso nel giudicarlo. La sua bellezza evidente, la sua cura maniacale per il vestire e per se stesso nei minimi dettagli, mi avevano ingannato. Lo credevo erroneamente un ragazzo superficiale e schiavo dell’apparenza – sai com’è, coi tempi che viviamo, dove sei hai un bel faccino e un vestito griffato hai un certo peso come merce venduta all’ingrosso del capitalismo sociale (non di rado chi è bello spesso fa pendant con l’arredamento e finisce lì). Invece scoprì un giovane dall’intelligenza pronunciata che ascoltava solo musica d’autore italiana, leggeva Flaubert e Hugo, adorava la psicanalisi come me ed era appassionato di cinema e teatro. Giuseppe era calabrese, di Crotone. Un posto molto bello soprattutto d’estate. Mi consigliava di andarci in vacanza, prima o poi. “A Crotone c’è un bel mare. Tu hai bisogno di staccare un po’ da Roma. Questa città è una bella donna che ti prosciuga. A furia di farti prosciugare da Roma non ti ripigli più”. È vero. Avevo bisogno di staccare. Di vivere altre città. Avevo viaggiato troppo poco per i miei trentatré anni perché in questo ero un provinciale, un pigro. Mi avrebbe fatto bene andare in altre città, se non addirittura in altri paesi. L’Italia mi stava stretta. Mi offriva un mondo che mi assopiva i sensi e soffocava ed io volevo vivere.
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Giuseppe era innamorato di una studentessa di medicina che viveva a Prati. Lei voleva avventure più che una storia mentre lui voleva frequentarla seriamente ma non mi diede altre informazioni in merito; fui più io a catalizzare da subito l’attenzione coi miei mal d’amore platonici da giovane Werther pronto a farsi male.
Gli raccontai di Federico Maio e di quel sentimento che avevo una grande urgenza di comunicargli.
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Giuseppe era uno stregone – e io lo soprannominai così perché mi divertiva vederlo mago e affidargli i miei vaticini. In Calabria diceva che si praticava stregoneria ovunque. Mi insegnò uno strano rituale magico. Bisognava entrare in sette chiese nell’arco di una giornata e uscire da queste con le spalle rivolte all’uscita e lo sguardo puntato all’altare. Facendo questo rito si sarebbe sconvolta la propria vita e intrapresa finalmente la strada a cui si era predestinati senza intoppi, celermente. Decidemmo di fare questo rituale. Andammo così, speranzosi di compiere un atto magico che avrebbe sconvolto le nostre vite, in varie chiese di Roma. Quella del cimitero del Verano. Un’altra a viale delle provincie, a piazza Bologna, per poi proseguire a Piazza Argentina e spingerci fino a Lepanto. Furono così esattamente sette le chiese che visitammo e dove facemmo il nostro incantesimo. Non mi restava che l’opera magica per non sopperire all’amore.
(7 novembre 2021)
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