Roberto Chiesi: la Cineteca di Bologna, il cinema italiano e Pier Paolo Pasolini

Altra Cultura

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di Giuseppe Sciarra

Critico cinematografico e responsabile del Centro Studi – Archivio Pasolini della cinetica di Bologna, collaboratore per importanti periodici come “Cineforum” o “Cinecritica”, autore di monografie dedicate a registi e attori del cinema francesecome Jean-Luc Godard e Gèrard Depardieu, Roberto Chiesi è un grande studioso e appassionato di cinema che abbiamo intervistato con enorme interesse  parlando di tutto ciò che gravita attorno alla settima arte, tra cinema classico, cinema attuale e uno sguardo al genio di Pier Paolo Pasolini.

Il progetto “L’immagine ritrovata” si prefigge come scopo quello di restaurare classici della storia del cinema non solo con l’obiettivo di preservarli nel tempo ma anche per instaurare un dialogo con gli spettatori del presente. Può parlarci di questo progetto e dell’interesse del pubblico verso queste opere?
“L’immagine ritrovata” è il nome del laboratorio di restauro creato dalla Cineteca di Bologna che svolge già da diversi anni un’attività internazionale. Il progetto legato ai restauri di film è “Il Cinema Ritrovato al cinema”. Il progetto è stato così presentato dalla Cineteca di Bologna. A partire da settembre 2013, la Cineteca di Bologna ha promosso la distribuzione di una serie di grandi film del passato nelle sale dell’intero territorio nazionale. Una scommessa in nome del cinema che amiamo, che restauriamo, che ci impegniamo a proporre al pubblico nelle condizioni migliori; e un gesto attivo di tutela nei confronti della sala cinematografica, in anni nei quali in Italia la vita delle sale (quelle che resistono) sta diventando una sempre più problematica sopravvivenza. Partiamo dalla considerazione semplice che questi film sono stati concepiti e realizzati per la visione in una sala: è questa la loro sede naturale, ed è inevitabile che il loro passaggio attraverso altri formati e canali rappresenti un’esperienza impoverita. Vedere o rivedere I quattrocento colpi, o Tempi moderni, o Gioventù bruciata sullo schermo e nella dimensione d’una sala cinematografica significa fare di ciascuno di questi film un’esperienza importante, capace di incidere nelle nostre vite, e di non perdersi in un indistinto frastuono di immagini. Si tratta, in tutti i casi, di film restaurati negli ultimi anni con tecnologia digitale, riportati quindi a uno splendore e a una nitidezza visiva mai raggiunti prima. La tecnologia digitale, inoltre, alleggerendo costi e modalità della distribuzione, ha reso possibile quel che fino a oggi sarebbe stato impensabile: organizzare un Cinema ritrovato al cinema non come serie di occasioni o eventi speciali, ma come una vera e propria stagione di novità che copre l’intero anno, e che della stagione di novità ha il ritmo, l’impatto comunicativo e anche l’ambizione commerciale. Perché crediamo davvero che, visti in sala, questi che presentiamo tornino a essere nuovi film, pronti a conquistare il pubblico delle nuove generazioni. Fortunatamente il pubblico ha quasi sempre risposto con vivo interesse a questa iniziativa che dura ormai da quasi un decennio, tanto che le città e le sale che ne fanno richiesta stanno aumentando. Bologna, poi, è un caso privilegiato: pochi giorni fa, un lunedì alle 22,30, sono ritornato a rivedere Vampyr di Dreyer e la sala era piena per metà, perlopiù spettatori giovani. Faceva un certo effetto pensare che tanti ragazzi fossero usciti una sera d’inverno per entrare in una sala a vedere un film di novant’anni fa, che hanno seguito in religioso silenzio. È un buon segno: se si offre la qualità e la bellezza, può accadere che il pubblico ricambi con l’attenzione e la passione che questi film meritano.

Nelle sale italiane di quasi tutta Italia sono usciti recentemente dei capolavori del cinema che avete restaurato (Mullholland Drive, Vampyr), ho notato però che in alcune regioni di Italia questi film non sono usciti. Come mai? Alcune regioni si sono dimostrate più refrattarie a riproporre in sala dei film del passato?
Gli effetti della pandemia sono stati disastrosi per il cinema e del resto non tutte le regioni rispondono con lo stesso interesse a questa iniziativa. Ma bisogna insistere per ottenere dei risultati. Che in certi casi avvengono più lentamente. So che comunque, in generale, Mulholland Drive ha ottenuto ottimi risultati e anche, come ho accennato prima, il film di Dreyer.

Come vede i giovani oggi nei confronti del cinema, soprattutto di quello autoriale?Vedo che è in aumento un pubblico giovanile desideroso di andare al cinema per vivere emozioni profonde, stimoli intellettuali e culturali, un pubblico che rifiuta l’abbruttimento e il degrado. Questo mi sembra un fenomeno molto positivo, che va assolutamente incoraggiato con ogni mezzo. È un fenomeno concreto perché lo vedo nell’afflusso di spettatori giovani ai film d’autore programmati dalle sale della Cineteca, lo vedo anche nei social. È il segno che il pessimismo deve essere ridimensionato e piuttosto che piangere o lamentarsi è necessario coltivare, incoraggiare e nutrire questo pubblico. Perché aumenti.

Come vede attualmente la situazione del cinema italiano? Ritiene che ci siano autori interessanti in giro che possono dare nuova linfa vitale alla nostra cinematografia o fa parte di quella frangia pessimista che vede il nostro cinema in una situazione di impasse?
Ho visto numerosi film italiani di valore o almeno interessanti negli ultimi anni e molti autori di talento, come Re granchio, Ariaferma, America latina, 3/19, A Chiara e altri. Penso che il cinema italiano, nonostante tutte le difficoltà pratiche che attraversa, sia estremamente vitale e rifletta con intelligenza e estro i fenomeni contemporanei. Forse anche perché gli ostacoli pratici e le difficoltà possono avere un effetto di paradossale stimolo sulla creatività.

Lei è un critico cinematografico che scrive per importanti periodici del settore ed è responsabile del centro studi archivio Pasolini della cineteca di Bologna. Come vede allo stato attuale la figura del critico? Ci può parlare del lavoro che svolge all’interno della cineteca di Bologna?
Allo stato attuale la figura del critico mi sembra diventata quasi irrilevante. E questo credo che sia anche colpa, anzitutto, dei critici stessi. Perché io credo che la critica debba essere studio, ricerca, analisi, debba fornire ai lettori degli strumenti utili e appassionanti per apprezzare meglio e entrare nei film, nel loro linguaggio, nella loro estetica, nel loro discorso, nelle loro matrici, nella loro dialettica con il sistema produttivo e con la società, adottando le chiavi migliori (la storia, la linguistica, la filologia etc.). Invece, purtroppo, spesso la critica si riduce ad un velleitario giochetto dove vengono emessi giudizi come se fossero sentenze, ma senza reali argomenti, senza serietà e senza rigore. Il lavoro che svolgo all’interno della Cineteca di Bologna è soprattutto legato all’opera di Pier Paolo Pasolini ma riguarda anche altri autori e ambiti (soprattutto il cinema italiano e europeo) ed è un’attività multiforme: scrittura di saggi e articoli, presentazione di film, partecipazione a seminari e convegni, diciamo in sintesi un’attività divisa fra una dimensione solitaria, di studio e scrittura, e un’attività di dialogo con il pubblico, di studiosi e spettatori di vario genere.

Questa rivalutazione tardiva di Pier Paolo Pasolini ha solo effetti positivi oppure rischia di disperdere la grandezza dell’artista con una speculazione puramente commerciale e ipocrita della sua immagine?
La rivalutazione di Pasolini non è poi stata così tardiva perché la sua opera era apprezzata fin da quando era in vita – infatti è stato uno scrittore prima, dal 1955, e poi un regista di successo, fin dall’esordio, nel 1961 – con la differenza rilevante che in quegli anni il pubblico era diviso nettamente in due, fra chi lo amava (o semplicemente lo rispettava) e chi lo detestava. La quasi unanimità di oggi certo è sospetta e spesso si alimenta di mistificazioni o banalizzazioni. Ma io credo che fondamentalmente questo interesse, questa attenzione del pubblico, dei lettori e degli spettatori nei confronti dell’opera di Pasolini sia essenzialmente un fenomeno positivo perché induce più gente a leggere i suoi libri e a vedere i suoi film. E questo è sempre un fatto concretamente positivo. Alla fine, le mistificazioni passano, sbiadiscono, muoiono e rimane l’autenticità dell’opera, che si impone per la sua natura, il suo valore, se c’è, e trova sempre nuovi interlocutori. Mentre il vero male è l’oblio, l’essere dimenticati e abbandonati. Come purtroppo accade ed è accaduto a tanti altri artisti italiani e non, anche di un livello non inferiore a Pasolini.

Perché tra tutti i grandi registi italiani ha scelto di curare l’archivio di Pier Paolo Pasolini? Cosa significa per lei Pasolini?
In realtà è stato un concorso di circostanze: io non mi sono mai fatto avanti ma sono stato chiamato da Laura Betti che, quando decise di trasferire il suo archivio a Bologna, quasi vent’anni fa, cercava una persona che conoscesse, che avesse studiato a fondo l’opera di Pasolini e si ricordò di me, grazie soprattutto a Goffredo Fofi, al quale avevo proposto, per una sua rivista, un saggio su Pasolini. Io avevo conosciuto Laura Betti qualche anno prima, perché avevo organizzato un ciclo di conferenze su Pasolini e l’avevo invitata. Ricordo che dopo un debutto drammatico e tragicomico, fortunatamente la Betti mi prese in simpatia e tutto filò liscio. Così, quando Fofi le segnalò il mio lavoro, lei mi accettò e mi propose quell’incarico. Che io ovviamente accettai con grande entusiasmo. Laura Betti era una donna geniale e un’artista di un talento strepitoso, la ammiravo da molti anni. Pasolini, con Ingmar Bergman, Charles Chaplin, Luchino Visconti, Jean-Pierre Melville e Federico Fellini, ha rappresentato per me il cinema come espressione assoluta, negli anni dell’infanzia e della prima adolescenza. È stato uno dei primi cineasti di cui abbia amato appassionatamente il mondo, l’universo espressivo. A distanza di tanti anni, rappresenta un artista inesauribile di cui continuare a nutrirsi incessantemente per la sua cultura della tradizione e per la sua spregiudicata tensione critica. La tensione e il rigore di chi non ha mai agito per mediocre opportunismo ma sempre con una sincerità anche spericolata e rischiosa, per esprimere se stesso e misurarsi al mondo esterno cercando di comprendere in quali direzioni stesse andando. O stesse precipitando.

 

(8 febbraio 2022)

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