di Rosetta Perfetta
Ah, signore e signori, vi avverto subito: questo non è un racconto da leggere come si legge una lettera di posta ordinaria, no! Qui, oh qui, si entra in un giardino che è molto più di un giardino, si entra in un mistero, in un segreto, in qualcosa che si annida tra il silenzio e il passo misurato di una donna inglese, Helen Turrell — e già il nome promette serietà, ma non vi fidate, eh? Non fidatevi mai dei nomi.
Helen, vedete, arriva in un luogo dove tutto è ordinato, dove le croci bianche sono allineate con la precisione dei soldatini di latta (ah, ma non quelli che giocano i bambini! No, no, molto più tristi, più solenni…), e porta con sé un dolore che non ha nome. Ah, ma non un dolore qualsiasi, no! Un dolore che si chiama “figlio nascosto” — e già qui, miei cari, immaginate il tremito nelle mani di una madre che non può dire: “Mio figlio”! Deve dire… come? “Mio nipote”. Ah, quante risate amare fareste se sapeste! Ma Helen non ride. Lei cammina, silenziosa, elegante, quasi una statua animata, e noi, pubblico attento, osserviamo, sospesi tra curiosità e compassione.
E allora appare lui: il giardiniere! Non fate l’errore di pensare che sia un uomo qualsiasi. Oh no, signori! Il giardiniere ha la terra sotto le unghie, sì, ma anche una sapienza… una sapienza dei morti, dei segreti, dei nomi che nessuno pronuncia mai. Cammina tra le tombe con passo leggero, e ogni tanto piega il capo, guarda Helen e… silenzio! Solo silenzio. Ma attenzione: è il silenzio che urla, il silenzio che pesa, il silenzio che insegna.
Helen si avvicina alla tomba, il cuore le batte (eh, lo vedete anche voi, vero?), e finalmente, finalmente, il giardiniere parla. Ah, e come parla! Non con voce da predicatore, no! Con voce sottile, misurata, ironica quasi:
— “Suppose you call me the gardener.”
Silenzio! E noi tratteniamo il respiro. Eh sì, perché qui non c’è bisogno di spiegazioni. Non vi aspettate prediche o sermoni. Qui il miracolo è domestico, è minuta poesia, è il gesto di piegarsi, di chinarsi sul dolore altrui. Helen ascolta, e… oh! vedete come le spalle si rilassano appena, un battito di ciglia, un tremito di labbra: tutto il lutto accumulato, tutto il segreto taciuto, trova un riconoscimento.
Ma non crediate che sia semplice! Ah, no! Miei cari spettatori, ogni parola qui è sospesa tra ironia e gravità. Helen non piange come nei romanzi da salotto. No, la sua è una compostezza piena di dolore trattenuto. Ogni gesto è misurato, ogni passo, ogni inclinazione della testa parla più di mille parole. È la tragedia inglese: elegante, contenuta, eppure lancinante.
E noi, lettori curiosi, ridiamo un po’, sospiriamo un po’, ci lasciamo guidare dal giardiniere che sa tutto, che vede tutto. Ah, il giardiniere, signore e signori, non è solo un custode di tombe! No, no, no! È un custode di verità nascoste, di vergogne silenziose, di segreti materni che la società vorrebbe cancellare. Sa i nomi di tutti — e qui, se chiudete gli occhi, lo sentite, vero? Sa i nomi di tutti, e pronuncia uno solo, e in quel nome si riflette la vita intera.
Helen lo guarda e tace. E noi ridiamo di nuovo, ma non per scherno! Ridiamo per meraviglia, per il ritmo insolito della vita, per la comicità tragica che solo il dolore vero sa raccontare. Il giardiniere le dice soltanto: “È qui.” Ah, pensate! Una frase sola, un verbo, e tutto il lutto prende forma. Tutto il segreto trova un volto, un corpo, una consistenza.
Ma attenzione, non crediate che il racconto finisca qui! Oh no! Ogni volta che qualcuno cammina tra le tombe — una madre, un padre, un fratello, un figlio, persino un bambino che non sa ancora cosa significhi la morte — il giardiniere è lì. Sempre. Non in abiti sacri, non con aureola e mano benedicente, ma con guanti sporchi di terra e cuore aperto. Dice: “È qui.” E quel semplice gesto, quel piccolo miracolo, è sufficiente a ridare dignità al dolore, a nomi dimenticati, a storie taciute.
Helen se ne va, piano, elegante, sì, ma dentro di sé cammina leggera. Perché ora sa che qualcuno — qualcuno invisibile, terrestre e insieme divino — ha visto il suo segreto, ha riconosciuto il suo dolore, lo ha accolto senza giudizio. E noi restiamo lì, a osservare, a ridere piano, a commuoverci di nascosto, a chiedere come sempre:
— Ma chi è davvero il giardiniere?
E mentre ci poniamo la domanda, signore e signori, sentiamo qualcosa di straordinario: che il giardiniere, ovunque sia, sorride. Sì, sorride! E in quel sorriso c’è tutto ciò che la guerra ha distrutto, tutta la grazia che la società ha ignorato, tutto l’amore nascosto dietro le menzogne necessarie.
Ecco, miei cari, questo è il miracolo del racconto: non resuscitare i morti, non cancellare il dolore, ma stare, piegarsi, vedere, riconoscere, pronunciare il nome — e dire, con la voce del cuore: “Ti vedo. Ti riconosco.”
Ah, e se vi siete chiesti fino a ora: chi è il giardiniere? Vi rispondo io, con tono da ultimo atto: è chiunque sappia piegarsi davanti al dolore dell’altro. È chiunque abbia mani sporche e cuore aperto. È chiunque, in fondo, sappia guardare Helen Turrell e dire, semplicemente: “È qui.”
E così, tra croci, rose e silenzi, il giardino rimane. E noi restiamo a osservare, a ridere, a sospirare, a imparare che il vero miracolo non è la resurrezione dei corpi, ma la resurrezione dei nomi, dei segreti, dei gesti che rendono umani.
(12 ottobre 2025)
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