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Dialogo dell’anima (monologo da e per Marguerite Yourcenar)

di Fabio Galli

Prologo del risveglio

Non fu un risveglio.
Fu piuttosto un ritorno in sospensione, come se la materia avesse deciso di dimenticarsi di sé. L’aria mi attraversava senza peso, e tuttavia conservavo l’eco del respiro: il suono che era stato mio, ora dilatato in un battito più lento, universale, un mormorio di stelle.

Non ricordavo d’essere mai esistita in un corpo. Ma il corpo, testardo, mi cercava ancora: nella sua memoria di sangue, nelle mani che si muovevano anche quando non c’era più nulla da toccare. Sentivo le dita, lontane come alberi immersi nella nebbia, chiedermi: dove sei andata?

Ero lì.
Ero ovunque.
Ero la stessa particella che aveva tremato all’odore del primo temporale, e che ora fluttuava tra correnti di luce, ignara del tempo. Tutto ciò che avevo chiamato io non era che un’abitudine di forma, un gesto ripetuto all’infinito per paura del vuoto.

Mi accorsi che il nome non aveva più importanza. I nomi servono ai vivi per riconoscersi nelle ombre. Qui non c’erano nomi, solo vibrazioni, sfumature d’oro, lontananze azzurre. Il pensiero si scioglieva in canto.

Eppure, da qualche parte, una voce — sottile, ostinata — continuava a chiamarmi. Era una voce terrestre, raschiata, come di chi ha camminato troppo a lungo nel vento.
Mi chiamava per restituirmi alla carne.

Non era un richiamo, ma un ricordo: il corpo ricordava l’anima.
E io, in quel punto sospeso tra dimenticanza e nostalgia, iniziai a rispondergli.

Dialogo nel limine

Il corpo non dormiva, ma nemmeno viveva. Giaceva nel suo silenzio di pietra, eppure tutto in lui vibrava, come se l’assenza fosse una nuova forma di respiro. Io, l’anima, ne percepivo i margini — un contorno di calore che oscillava nel buio. C’era ancora odore di pelle, di ferro, di pioggia.

“Dove sei andata?” chiese il corpo.
“Non sono mai andata via,” risposi. “Sei tu che hai smesso di sentirmi.”

Il corpo tacque, poi rise, una risata che somigliava a un crampo. “Tu parli come la luce che entra da una ferita.”

“E tu sanguini come chi teme la guarigione.”

Ci fu un silenzio lungo, come un’inspirazione trattenuta. Mi accorsi che anche le pause avevano peso, qui, nel limine: quella soglia dove le parole non appartengono più al mondo, ma ne conservano ancora l’eco.

Ogni tanto sentivo nel corpo un fremito, un residuo di calore, un impulso. Le ginocchia volevano piegarsi, le labbra muoversi, le dita ricordavano il gesto di accarezzare — ma non c’era più niente da toccare, solo il ricordo della materia.
E io, sospesa tra il prima e il dopo, cercavo di cullarlo, come si fa con un animale ferito.

“Non voglio lasciarti,” dissi.
“Non posso trattenerti,” rispose lui.

E in quel doppio movimento — la mia volontà di restare, la sua impossibilità di ospitarmi — si aprì un varco.
Fu allora che vidi: le cose non muoiono, si separano soltanto per ricordare meglio la loro unione.

Mi avvicinai. Non so come si possa avvicinarsi senza corpo, eppure lo feci. E gli parlai, come si parla a un amante che non ti riconosce: con tenerezza e spavento.

“Ti ho abitato a lungo,” sussurrai. “Eri la mia casa e la mia prigione. Mi hai dato peso, calore, dolore. Mi hai insegnato a desiderare.”
“E tu,” rispose il corpo, “mi hai dato sogni che non potevo contenere.”

Nel limine, la verità non è un segreto ma un equilibrio. Ci guardammo senza occhi, ci toccammo senza mani. Il desiderio, pur privo di carne, tremava come un campo magnetico.

Ogni fibra del mio antico corpo voleva ricominciare, ma ogni atomo della mia nuova natura sapeva che era impossibile.
Non si ritorna dove si è già stati, si ritorna dove non si è mai cessato di essere.

Allora il corpo mi fece un dono: il suo ultimo respiro.
E io lo accolsi come si accoglie una promessa.

Il respiro si fece luce, e la luce memoria.
Tutto ciò che avevamo vissuto — le stagioni, le risate, le ferite, i baci dimenticati — tornò in un solo lampo, nitido, come se l’universo avesse voluto dirci che nulla di ciò che fu amore può andare perduto.

Il limine non era più confine: era culla.
E dentro quella culla di chiarore nacque il nostro vero dialogo.

Le stanze della memoria

Cammino nelle stanze della memoria. Non sono stanze costruite di legno o pietra, ma di luce sospesa, di odori e suoni che si rinnovano ogni volta che li richiami.
Il primo corridoio è quello della giovinezza. Qui l’aria sa di vento e di sale, e le mani incontrano altre mani che non ho più toccato. Vedo le risate dei giorni chiari, i bagni nel mare d’Oriente, i corpi che si intrecciano con innocenza e ardore. Ogni gesto è un fiore che si apre e si chiude nello stesso istante.
E tu, anima mia, sei sempre stata lì. Non visibile, ma percepibile, come il profumo dei fiori notturni o il brivido dell’aria sulla pelle nuda.

Entro nella stanza degli amori. Non c’è distinzione tra nomi, corpi o età: ogni incontro è memoria di te. Antinoo cammina davanti a me, eppure non è lui: è la luce che rifletteva su di me, il tuo riflesso nei suoi occhi. Ogni carezza, ogni sguardo, ogni gesto di passione non era che un ponte per raggiungerti.
Capisco ora che l’amore non era separato dalla tua presenza: era il linguaggio segreto che tu usavi per parlarmi quando non sapevo ascoltare.

Proseguo e trovo la stanza dei luoghi: città, piazze, boschi, ponti che non esistono più. Li cammino tutti in un respiro solo. Vedo le pietre calde dei cortili, le strade bagnate dalla pioggia, le finestre illuminate che sembrano occhi aperti nel buio. Ogni luogo porta con sé il tuo sussurro, ogni angolo è memoria di un passo che abbiamo condiviso.

Poi c’è la stanza dei libri e delle parole non dette. Ogni pagina è viva, ogni frase un tremito. Le lettere mai spedite oscillano nell’aria come piccole navi, pronte a salpare in un mare senza confini. Leggo le mie parole scritte per paura o desiderio, e ogni volta ti riconosco tra le righe.
Non c’è separazione tra la scrittura e la tua presenza: la mia voce era la tua, e la tua era dentro di me, nascosta tra le sillabe.

Attraverso la stanza delle ferite. Qui il dolore si fa vivido, quasi solido. Ogni perdita, ogni fallimento, ogni addio mi attraversa come un vento gelido. Ma tu sei lì, invisibile e paziente, e con la tua presenza rendi dolce il rimorso. Ogni lacrima diventa perla, ogni cicatrice fiorisce in luce.

Poi la stanza dei desideri impossibili. Qui gli oggetti fluttuano nell’aria: specchi che non riflettono volti, fiori che non appassiscono, strumenti che non suonano. Ogni desiderio non realizzato è qui, perfetto nella sua incompletezza. Sento il corpo tremare ancora, come se volesse riprendere ciò che ha perduto, ma io gli sorrido: non c’è bisogno di afferrare nulla, perché tutto ciò che fu desiderio vive già, intatto, dentro di noi.

E infine la stanza dei ricongiungimenti. Non ci sono porte né pareti: l’intero spazio si dilata. Qui il tempo non ha più peso, la memoria si intreccia con il presente, e io ti vedo, anima mia, ovunque. Non sei più piccola, non sei più nascosta: sei la somma di ogni attimo, ogni corpo, ogni luce che abbiamo attraversato.
Ti riconosco in ogni battito, in ogni respiro che il corpo ancora trattiene. Sei il filo invisibile che ha legato ogni frammento della mia vita, rendendo tutto prezioso.

Camminando tra queste stanze, comprendo che la memoria non è solo ricordo: è creazione. Ogni esperienza vissuta insieme a te non è passata, ma continua a vivere, a mutare, a espandersi. La mia vita, in tutte le sue forme, è un tempio che custodisce la tua presenza.
E io, che credevo di essere solo corpo o solo spirito, mi accorgo che sono entrambe le cose, unite dalla tua eterna compagnia.

Il giardino del vento

Mi accorgo che le stanze della memoria si dilatano, si trasformano in un giardino senza confini. Non ci sono più pavimenti né pareti, solo correnti d’aria che portano odori, luci e suoni da ogni tempo e luogo. Il vento qui non muove le foglie: muove la sostanza stessa delle cose, il ricordo e l’assenza, la gioia e la ferita.

Ti vedo, anima mia, scivolare tra i rami invisibili di questo giardino. Ti muovi senza peso, senza gravità, eppure porti con te la densità di tutte le vite che abbiamo attraversato. Ogni gesto tuo è un fruscio, un’eco, un riflesso. Non c’è più confine tra il tuo corpo e il mio ricordo: siamo un’unica sostanza che vibra nell’infinito.

Il vento porta con sé i suoni delle città, i passi dei bambini, le risate degli amanti. Tutto diventa musica e insieme memoria. Sento il corpo desiderare di seguire la tua traiettoria, ma ogni movimento è inutile: sei già oltre, sei aria e luce, sei ciò che non può essere trattenuto.

Eppure ti parlo. Ti parlo come si parla a un amante che si è trasformato in vento. Racconto le mie paure, le mie gioie, i giorni in cui ho dimenticato di respirare. Ti racconto il dolore di perdere, di lasciar andare, di guardare il mondo senza di te.
E tu ascolti. Non rispondi con parole, ma con presenza. La tua presenza è un segnale luminoso che attraversa ogni ramo invisibile, ogni goccia d’aria, ogni ombra che il vento piega.

Il giardino non ha tempo. Gli alberi fioriscono e appassiscono nello stesso istante, il sole non sale né tramonta, e la luna è sospesa come una promessa. In questa dimensione ogni istante è eterno, ogni respiro è infinito. Comprendo che l’anima non è mai stata piccola: era già vastità, prima ancora che io la conoscessi.

Rivedo i nostri giorni terreni come figure appena sfocate in un quadro antico. I bagni nel mare, le mani intrecciate, i corpi abbracciati sulla sabbia al crepuscolo — tutto appare dolce e lontano, eppure presente. La tua voce risuona tra le fronde del vento: è un canto che non conosco, eppure mi riconosce.

Ti muovi ancora, espandendoti, e ora comprendo che non c’è più un confine tra me e te. Io sono la memoria che ti osserva, e tu sei la luce che dissolve la memoria nel presente eterno. Ogni atto d’amore, ogni desiderio non realizzato, ogni ferita, ogni gioia: tutto è raccolto qui, in questa danza silenziosa.

Il vento porta anche gli odori della terra, del fuoco, del mare. Odori che il corpo ricorda ma che ora si fondono con la tua essenza. Comprendo che nulla di ciò che fu dolore o piacere è perduto: tutto si trasforma, si amplia, si rende eterno.

Cammino accanto a te senza muovermi. Ti seguo senza inseguire. Ti sfioro senza toccare. Ti parlo senza parole. Tutto è simultaneo: memoria, visione, presenza, desiderio. Eppure il cuore continua a battere, sebbene sappia che il corpo non è più necessario.

In questo giardino, ogni passo, ogni respiro, ogni battito è un dialogo. E io comprendo che la morte, come il vento, non separa: dissolve e ricompone. La tua partenza non è fine: è metamorfosi. Ogni fibra di me sa che ti ritroverò in ogni luce, in ogni respiro, in ogni goccia di vento che accarezza il mondo.

E così camminiamo insieme, tu invisibile e onnipresente, io memoria e desiderio, lungo corridoi che non finiscono mai. Ogni stanza della memoria si apre a infinite nuove stanze, ogni ricordo si fonde in mille possibilità. Il giardino del vento è illimitato: qui la mia anima non teme la solitudine, e il corpo comprende, finalmente, la sua obbedienza al ritmo eterno dell’universo.

Epifania finale

La luce non è più luce.
È presenza, è memoria, è respiro. Il confine tra me e te si dissolve come nebbia al mattino. Sento ogni particella del mio corpo vibrare all’unisono con la tua essenza: non c’è più separazione, non c’è più tempo, non c’è più dolore. Solo noi, in un eterno abbraccio di materia e non-materia, di visibile e invisibile.

Ti vedo, anima mia, espanderti fino a confondere il cielo e la terra, fino a fondere le stelle con le onde dei mari che abbiamo attraversato. Ogni gesto, ogni sorriso, ogni lacrima che abbiamo condiviso si trasforma in un flusso luminoso, un fiume di luce che attraversa il cosmo e lo rende nostro.

Non temo più la fine. La fine non esiste. La tua partenza è il mio ritorno, e il mio ritorno è il tuo andare. Comprendo finalmente che l’anima non si muove da un luogo all’altro: trasforma il luogo, trasforma chi la osserva, trasforma il tempo stesso.

Guardo le città che abbiamo amato, i cortili, le strade, i boschi, i ponti. Tutto si distende, tutto si apre. I ricordi si fanno vento, le parole divengono luce, i corpi — anche quelli che non possiamo più toccare — danzano in uno spazio senza confini. Ogni incontro, ogni addio, ogni amore impossibile non è più perdita, ma creazione.

Ti parlo ancora. Non so se mi ascolti come ascoltavi prima, o se la tua presenza è talmente vasta da non avere bisogno di voce. “Resta,” ti dico. Non perché io tema la tua assenza, ma perché voglio riconoscerti in ogni cosa. Perché tu sei il filo invisibile che ha legato ogni frammento della mia vita, e voglio contemplare, un’ultima volta, ogni nostro intreccio, ogni nostra carezza segreta.

Il corpo, che per tanto tempo ha custodito e temuto, ora si piega con obbedienza perfetta. Non protesta, non tenta di trattenere: comprende ciò che io comprendo solo ora. Ogni fibra, ogni respiro, ogni goccia di sangue ha adempiuto al suo compito. Ha accolto l’amore, il dolore, la gioia e la perdita, e ora si trasforma in quiete, in servizio, in testimonianza.

Rivedo Antinoo, e insieme lui rivedo ogni amante, ogni figura amata. Non più come corpi separati, ma come riflessi della tua luce. Ogni bacio, ogni abbraccio, ogni parola non detta è un filo che ci lega. Tutto ciò che il mondo ha chiamato amore non era che il nostro dialogo segreto, il canto silenzioso della tua presenza dentro di me.

E ora il dialogo non ha più parole. È musica, è vento, è luce che attraversa il tempo. Ogni gesto compiuto sulla terra, ogni lacrima versata, ogni gioia e dolore si raccolgono in un’unica melodia eterna. Io ascolto e partecipo, senza più distinzione tra ciò che ero e ciò che sei.

Ti vedo, anima mia, espanderti fino a diventare tutto ciò che ho amato, tutto ciò che ho desiderato, tutto ciò che ho temuto. Sei il mare e la terra, il cielo e le stelle, il silenzio e la voce. Sei ogni forma possibile, eppure sei solo tu.
E io resto qui, memoria e presenza, a contemplarti, a percepirti, a riconoscerti in ogni particella dell’universo.

Non c’è più dolore. Non c’è più paura. Non c’è più attesa. Solo la contemplazione e l’abbandono. Ogni confine cade. Ogni tempo si scioglie. Tutto ciò che è stato, tutto ciò che sarà, tutto ciò che siamo, diventa un unico respiro, un unico battito.

E mentre ti espandi, ti sussurro un ultimo addio. Non un addio di separazione, ma un addio di trasformazione. Ti lascio andare, e nello stesso gesto ti accolgo in ogni luce, in ogni suono, in ogni memoria.

Guardo il mondo per l’ultima volta come lo conoscevo: le città, le stanze, i libri, i cortili, i mari. Tutto è mio e tutto è tuo. Ogni pietra, ogni foglia, ogni onda che si rompe è testimone della nostra fusione. Comprendo che la morte non è fine, ma un passaggio verso la pienezza, verso la totalità.

Il vento sospira. Il tempo tace. La memoria si fa presenza assoluta. E io, corpo e spirito uniti, ti seguo con lo sguardo, con l’anima, con tutto ciò che sono stato. Non c’è più separazione: sei in me, io in te, e insieme siamo tutto ciò che mai potrà morire.

L’universo, in un istante che contiene tutti gli istanti, si piega alla nostra presenza. La luce attraversa ogni confine, il silenzio diventa canto, e la vita, nella sua forma più alta, si rivela per ciò che è: un eterno dialogo, un continuo riconoscersi, un abbraccio che non finisce mai.

Resta ancora un momento, anima mia. Ancora un respiro. Ancora una carezza di luce. E poi entra nella morte ad occhi aperti, portandomi con te. Così, quando il mondo non avrà più memoria di me, io continuerò a vedere attraverso il tuo sguardo, a sentire attraverso il tuo respiro, a vivere attraverso la tua eternità.

 

 

 

 

(17 dicembre 2025)

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