di Fabio Galli
Prima ancora che la forma si definisca, il lavoro di Michele Paladino(Montesano Scalo 1950 – Vigevano 2021) si colloca in una zona di sospensione in cui la materia non è mai un semplice mezzo espressivo, ma un interlocutore. Il suo rapporto con il ferro si fonda su un’idea di ascolto e di attenzione che lo allontana sia dalla tradizione scultorea monumentale sia da una concezione puramente tecnica del fare artistico. Paladino non utilizza il metallo per affermare una supremazia del gesto, ma per portare alla luce ciò che la materia stessa conserva: segni, tracce, stratificazioni temporali.
Il ferro, nella sua pratica, non è mai neutro. È un materiale già carico di storia, spesso proveniente da contesti industriali o da strutture dismesse, che reca su di sé le cicatrici dell’uso, dell’abbandono, della trasformazione. Ruggine, ossidazioni, irregolarità non vengono corrette o occultate, ma diventano elementi strutturali dell’opera. In questo senso, Paladino si inserisce in una linea di ricerca che attribuisce valore estetico e simbolico al tempo, inteso non come semplice degrado, ma come processo di scrittura silenziosa sulla superficie delle cose.
Il recupero di materiali non risponde a un intento decorativo né a una logica di assemblaggio casuale. Al contrario, l’artista opera una selezione attenta, guidata dalla capacità del ferro di evocare una memoria collettiva. Frammenti di strutture, lamiere, elementi metallici già vissuti diventano portatori di una dimensione storica che precede l’intervento artistico. Paladino non cancella questa dimensione, ma la assume come parte integrante dell’opera, trasformando lo scarto in testimonianza.
Un tratto costante della sua produzione è il rifiuto della perfezione formale. Le opere non cercano l’armonia classica né la levigatezza, ma si presentano come corpi segnati, talvolta aspri, in cui la tensione tra equilibrio e instabilità rimane visibile. Questa scelta non è puramente estetica: implica una presa di posizione sul senso stesso della forma, intesa non come ideale astratto, ma come risultato di un confronto con la resistenza della materia e con la sua storia.
Nelle strutture e nelle figure che emergono dal ferro, quando la figurazione è presente, non si riscontra mai un intento realistico. Le sagome sono essenziali, ridotte a presenze archetipiche, spesso prive di tratti individualizzanti. Questo carattere non narrativo consente alle opere di collocarsi in una dimensione sospesa, in cui il riferimento al corpo umano non diventa mai racconto specifico, ma allusione a una condizione più generale, condivisa. Anche quando le forme si avvicinano a una riconoscibilità figurativa, restano aperte, non concluse, affidate allo sguardo di chi osserva.
La dimensione simbolica è centrale nel lavoro di Paladino, ma non si traduce mai in un sistema chiuso di significati. I suoi lavori non funzionano come allegorie univoche, né come illustrazioni di concetti precostituiti. Al contrario, il simbolo resta ambiguo, plurale, disponibile a interpretazioni differenti. Questo carattere aperto è una delle qualità che rendono la sua opera resistente a una lettura puramente descrittiva e ne rafforzano la tenuta nel tempo.
Accanto alla dimensione simbolica, è possibile riconoscere una costante attenzione alle implicazioni etiche del fare artistico. Senza ricorrere a dichiarazioni esplicite o a immagini di denuncia diretta, le opere di Paladino riflettono una sensibilità verso le condizioni di marginalità, di esclusione, di fragilità che attraversano la società contemporanea. Il ferro, materiale duro e resistente, diventa paradossalmente il luogo in cui queste fragilità trovano una forma, senza essere edulcorate o risolte.
In questo senso, l’artista assume il ruolo di testimone più che di narratore. Le sue opere non raccontano storie precise, ma mettono in presenza situazioni, stati, tensioni. Non chiedono una fruizione rapida, ma impongono un tempo di osservazione e di confronto. La lentezza con cui si rivelano è parte integrante della loro efficacia, soprattutto in un contesto culturale dominato dalla velocità e dalla semplificazione visiva.
Nel complesso della sua produzione si avverte una continua oscillazione tra memoria e presente. I riferimenti a una dimensione arcaica, quasi rituale, convivono con una sensibilità profondamente contemporanea, attenta alle trasformazioni sociali e culturali. Questa coesistenza non viene mai risolta in una sintesi pacificata, ma rimane come tensione attiva, come campo di forze che attraversa le opere e ne costituisce l’ossatura concettuale.
Ciò che infine caratterizza l’esperienza delle opere di Michele Paladino è la loro capacità di modificare lo spazio in cui si trovano. Non si limitano a occupare un luogo, ma lo caricano di una presenza che è al tempo stesso fisica e mentale. Il dialogo che instaurano con chi le osserva non è immediato né consolatorio: richiede attenzione, disponibilità, una certa accettazione del silenzio. In questa relazione, l’arte torna a essere ciò che, nella sua forma più rigorosa, non ha mai smesso di essere: uno strumento di interrogazione del reale, capace di dare forma a ciò che resiste alla parola e di rendere visibile ciò che, altrimenti, resterebbe sommerso.
(19 dicembre 2025)
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