di Fabio Galli
Non si comincia mai davvero dalla fine, eppure le città – quelle vive, quelle che respirano come animali metallici – sembrano accorgersi all’improvviso quando una voce che le ha immaginate per decenni smette di parlare. È un silenzio particolare, un silenzio azzurro, come quello delle albe sulle grandi metropoli d’Occidente. La notizia della morte di Frank Gehry si è diffusa così: non con fragore, ma come una vibrazione che attraversa gli edifici da lui progettati, come se le superfici ondulate dei loro rivestimenti avessero avvertito, per prime, l’assenza del loro autore. A Santa Monica, nella casa dove abitava da molti anni, si è spento a 96 anni dopo una breve malattia respiratoria, e la comunicazione ufficiale è arrivata, sobria, dalla voce del capo del suo storico staff. Ma la risonanza, quella, appartiene a un’altra dimensione: la dimensione del mito che ha trasformato la realtà quotidiana delle città.
La storia di Gehry non inizia con le sue opere celebri, né con i riflettori che, negli ultimi quarant’anni, hanno immortalato le sue creazioni come simboli del nuovo immaginario globale. Inizia molto prima, con un ragazzo nato a Toronto nel 1929 con il nome di Frank Owen Goldberg, circondato da una famiglia modesta e da un’America in trasformazione che avrebbe presto accolto quel giovane sognatore come cittadino. Il cambio di nome, l’assimilazione progressiva nel tessuto statunitense e l’evoluzione di una mente che non riusciva ad accontentarsi del già dato sono capitoli di un romanzo biografico in cui l’architettura diventa un atto di immaginazione, prima ancora che una professione.
Eppure la chiave del suo percorso non sta nel desiderio di rompere le regole, come spesso si ripete in modo stereotipato, ma nel bisogno di capire come le forme possano raccontare una storia diversa. Gehry non ha mai cercato la provocazione gratuita: ha inseguito piuttosto un’idea di libertà formale che, negli anni Sessanta e Settanta, sembrava quasi una bestemmia contro l’ortodossia modernista. L’onda lunga della sua visione ha poi investito continenti interi.
Il punto di svolta, naturalmente, è Bilbao, ma anche qui conviene rallentare, evitare la leggenda troppo facile del genio che arriva e salva una città moribonda. Il Guggenheim Museum del 1997 non è soltanto un museo straordinario; è una prova materiale che la scultura poteva diventare architettura senza perdere la sua vocazione poetica, e che l’architettura poteva farsi motore economico senza smettere di essere arte. È ciò che in seguito sarà chiamato Bilbao Effect, un’etichetta giornalistica che rischia di banalizzare un fenomeno più complesso: la trasformazione di intere politiche territoriali, la rinascita di zone industriali, il risveglio di una città che aveva bisogno di credere ancora in un futuro possibile. Bloomberg, negli anni successivi, avrebbe sottolineato come quell’edificio avesse cambiato il modo di progettare non solo gli spazi urbani, ma anche le strategie di governo locale.
Se Bilbao ha scolpito la fama di Gehry nella memoria delle masse, altre opere hanno consolidato il suo ruolo nella storia dell’architettura contemporanea in modo più sottile, forse più profondo. A Los Angeles, la Walt Disney Concert Hall non è solo un’icona fotogenica ma un organismo acustico, un corpo di titanio che contiene una delle sale più raffinate mai costruite. Fu un progetto complesso, stratificato, nato tra difficoltà economiche, ritardi, ripensamenti: eppure, una volta completato, ha mostrato come l’armonia tra ingegneria, arte e spazio umano potesse diventare esperienza sensoriale totale.
A Berlino, la DZ Bank Building affronta un’altra sfida: integrare scultura e struttura senza alcuna forzatura, come se l’edificio fosse sempre esistito in quella forma. La sua grande sala interna, con la copertura ondulata e traslucida, è un luogo in cui la geometria smette di essere astratta e diventa quasi un paesaggio. Gehry era maestro in questo: nel creare spazi in cui la materia pareva aver trovato una sua naturale leggerezza.
A Parigi, con la Fondation Louis Vuitton, Gehry porta alle estreme conseguenze questa tensione tra volume e leggerezza. Le vele di vetro, le curvature imprevedibili, la volontà di catturare la luce come ingrediente principale del progetto: tutto concorre a una sensazione di movimento perpetuo. L’edificio non sembra mai fermo, nemmeno quando lo si osserva da vicino. Somiglia più a una creatura, a un grande animale marino che si prepara a cambiare forma con ogni cambio di stagione. Qui, più che altrove, Gehry ha toccato il limite del possibile, trasformando la trasparenza in una materia emotiva.
Il percorso di Gehry è stato quindi una lunga, instancabile esplorazione della libertà. Una libertà che non ignorava le città, non le violentava, ma le accompagnava verso una dimensione inedita. I suoi detrattori lo accusavano di spettacolarizzare l’architettura; ma è difficile negare che, sotto la superficie spettacolare, si trovasse sempre un pensiero rigoroso, una disciplina tecnica sorprendente, una consapevolezza profonda del ruolo culturale degli spazi collettivi.
La sua morte, ora, non chiude semplicemente una carriera eccezionale; apre un vuoto che obbliga a interrogarsi su ciò che l’architettura può ancora essere. Gehry ha mostrato che le città sono organismi sensibili, pronti a cambiare se qualcuno ha il coraggio di immaginarle diversamente. E ha dimostrato che anche l’edificio più ardito può funzionare, respirare, accogliere la vita quotidiana senza diventare monumentale in senso oppressivo.
Resta allora un’eredità fatta non solo di forme, ma di possibilità. Gehry ha insegnato che l’architettura può essere un gesto poetico senza perdere la sua concretezza; che può essere un atto politico senza trasformarsi in didascalia ideologica; che può essere, infine, un modo di vedere il mondo come se fosse sempre sul punto di rinascere. Anche adesso, nel silenzio lasciato dalla sua scomparsa, le sue opere continuano a parlare. E forse è questa la definizione più vera di un’architettura che non muore: l’eco che sopravvive al suo autore.

(6 dicembre 2025)
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