Ricci/Forte: ovvero come nuotare a stile libero dentro il pantano della cultura italiana. L’intervista

Altra Cultura

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di Maximiliano Calvo

Non è una novità e non lo nascondiamo, il teatro di Ricci/Forte ci entusiasma, ci piace, è vivo, nulla ha a che vedere con il “teatro morto” di cui parla Peter Brook  in uno dei suoi saggi più riusciti. Ricci/Forte è un duo di preparatissimi professionisti che scavano là dove solo Dennis Cooper e pochi altri hanno scavato, nella verità di ciò che di noi ci piace meno: l’essere umani come siamo con tutte le nostre schifezze e bellezze. Parliamo del lavoro diRicci/Forte, inventori della geniale compagnia teatrale che porta il loro nome,  in questa interessantissima intervista che i due autori-registi ci hanno gentilmente concesso.

L’intervista:

Ricci/Forte: finalmente una compagnia che rischia…

Per anni abbiamo risposto con sbigottimento a chi ci chiedeva quanto coraggio ci volesse per portare in scena quel mondo “apocalittico”, così violento a detta degli altri. Uno sguardo perplesso, il nostro, in quanto non avevamo mai registrato alcuno sforzo supplementare per raccontarci. Era, è, una visione del Reale, senza alcun additivo se non quello visionario della poesia. Nel tempo, poi, ci siamo resi conto che continuavamo a nuotare in stile libero dentro un pantano – la Cultura italiana – fatto di squadroni di parassiti che tramano esclusivamente per il proprio tornaconto e sono garanti di una immobilità artistica terzomondista. Ecco che allora il “rischio” si trasforma in vero e proprio cimento: la volontà dei piccoli travet dello Spettacolo Italiano di mantenere il loro giardino di Tara in una guerra di secessione che li sta decimando a favore di una sempre più crescente volontà del pubblico di riconoscere nuove forme di comunicazione e, soprattutto, agganciate inesorabilmente al presente. Un’Arte che parli di noi, della fatica di muoverci in un Paese bidimensionale dove il protagonista di X Factor e l’elezione del nuovo Papa vengono vissuti con la stessa intensità commerciale. E allora sì, in questo indipendentismo noi rischiamo ogni giorno come se piroettassimo su un campo minato. Non tanto per lo specifico artistico proposto quanto per la scomodità che la nostra poesia contemporanea produce,        in termini contenutistici e di affetto del pubblico.

Abbiamo letto molto su di voi, la sensazione è che non riescano a catalogarvi e che questo protegga un po’ il vostro lavoro…

La patologia dell’etichettatore, così in voga nel nostro paese, prova furiosamente ad inquadrare qualunque cosa insolita gli si prospetti alla vista. Rientra nell’ordine di quella paura della differenza, intesa come nemico e non come valore, questa smania di contenere il pensiero che definisce lo stato prostrato etico e gli anni luce che si dovrebbero percorrere per raggiungere quel rispetto per la Fantasia o Creatività, che è alla base di qualunque civiltà evoluta. Il nostro Eden è preceduto da una lista infinita di titoli in grassetto paradossali (enfants terribles, trasgressivi, provocatori, cool, violenti, manipolatori, scioccanti) che puntualmente si polverizzano non appena si assiste ad un evento live. C’è poi chi, come certa critica obsoleta, si affida unicamente agli aggettivi senza nemmeno scomodarsi ad un incontro diretto con il lavoro: capanne di fango in attesa delle prime piogge.

Parlando con un conoscente del mondo del teatro, questi ci diceva che non ama il vostro lavoro a causa delle vostre scelte estreme. Vogliamo discutere insieme di queste scelte “estreme” che noi non vediamo?

L’arte non deve essere amabile ma stimolante: un punto di domanda incuneato tra il cuore e lo sterno. Forse si dovrebbe rigirare la domanda a chi utilizza tali aggettivazioni per chiedere loro di quali estremi si stia parlando e quale sarebbe il centro da cui non allontanarsi? Non esistono scelte estreme in una grammatica teatrale ma solo emergenze espressive, che nutrono ed espandono il senso di un progetto. Il termine “estremo” non definisce noi ma solitamente l’universo circostanziato della persona che lo utilizza.

Come nasce l’idea di formare il vostro gruppo di lavoro?

La noia ci ha sempre regalato grandi sprint per cambiare il verso delle cose. Insofferenti agli innumerevoli circoli pickwick di mediocrità e clientelismi di cui è tappezzato il nostro contesto culturale, abbiamo sempre abbandonato le posizioni raggiunte per timore del sopraggiungere di onde anomale di spugnosa muffa.         Dopo una collaborazione di anni nella scrittura, e altrettanti di rammarico per gli allestimenti incompiuti che subivano i nostri scritti per mano di terzi, abbiamo deciso di sviluppare tridimensionalmente il nostro privatissimo universo. La glaciazione è durata fino al 2006 quando, utilizzando il testo troia’s discount – che traeva spunto dall’amicizia eroica di Eurialo e Niso nell’Eneide, catapultato ai giorni nostri con due balordi di periferia che combattono la mafia russa – decidemmo di dare l’avvio al progetto “ricci/forte ensemble”. Nessuno, all’epoca, credeva che avremmo mai potuto tirare fuori qualcosa di senso in un testo del quale veniva notata una spiazzante ricchezza lessicale ma l’assoluta impossibilità a metterlo in scena per la mancanza di fabula e le difficoltà di allestimento (parlavamo di furti d’auto, corse in autostrada, saccheggi e incendi di centri commerciali). Il debutto ha sancito poi quello che sarebbe stato per alcuni anni a venire il leitmotiv della nostra produzione: affetto enorme di un pubblico che finalmente recuperava a teatro un significato differente dalla semplice e defunta rappresentazione, e anestetico disappunto da chi contagiato dal morbo televisivo della rappresentazione avrebbe cercato, inutilmente, appigli da fiction in uno spazio vitale come il palcoscenico. Alla stregua di quei turisti della domenica che ordinano spaghetti alla carbonara in qualunque parte del mondo si trovino.

Come siete riusciti nel passato a conciliare il vostro lavoro di sceneggiatori televisivi con quella di raffinati provocatori teatrali per un pubblico più colto?

In uno dei canti della nostra precedente letteratura cavalleresca abbiamo prestato le nostre penne alla tv, sempre protesi a cercare di offrire un prodotto che competesse senza vergogna con la produzione americana, maestra del genere. La sensazione è come quella di restare imprigionati per anni nello stesso reparto profumeria di un grande magazzino. Musica smielata, odori acri sintetizzati in provetta, sorrisi falsi tinti di rosso volgare che invitano a pattinare in superficie e slogan da “maestra morta alle elementari”. Dopo diversi tentativi, tutti seri e protesi ad una rigenerazione del linguaggio catodico, abbiamo deciso di abbandonare un campo che comunque richiedeva energia, concentrazione ed entusiasmi. Senza contare che in quegli anni nasceva l’ensemble e, non avendo ancora alcun credito teatrale, avevamo necessità di sostenere le nostre produzioni grazie all’attività di sceneggiatori.

La genesi dei vostri lavori… Incubi, letteratura o che altro?

Dopo tanti anni stiamo ancora cercando di distillare un processo meno carsico e doloroso per edificare la nostra cattedrale fantasmatica che, ad ogni progetto, si sviluppa e prende il largo. E’ nell’abbracciare la notte che risiede la sintesi di un abbandono. E per portare in scena un nuovo spettacolo devi forzarti all’abiura, far si che il buio ti ingoi per recuperare la bussola di una nuova traiettoria. Senza perimetri conosciuti, privo anche di torce per illuminarti i piedi, ritrovi le tue necessità che raggiungono la sacralità di un rito ctonio.

E’ evidente che tutto parte dalla scrittura, senza una buona scrittura non ci può essere un buon lavoro teatrale, tutti questi nudi… Non siete troppo gay per questa Italia?

Il corpo è linguaggio, esattamente come la parola. Quindi la scrittura, buona o cattiva che sia, include una disciplina fisica che si imbastisce a doppio filo con la drammaturgia verbale. Il cattolicesimo impedisce però ad una larga parte di comprendere la portata evocatrice di un corpo privo di abiti, permettendogli soltanto di sussultare allo scandalo che si cela dietro un’educazione perbenista. Non si tratta di essere gay o etero ma è squisitamente una questione di neuroni: questi non hanno affatto identità sessuale.

Da Shakespeare a Dennis Cooper, è un bel salto. O no?

In realtà no. I riverberi etici e la smania di trovare una collocazione nel proprio evo, stabiliscono inedite connessioni tra l’uomo di oggi e i paladini del passato: cortocircuiti continui che fanno intendere le epoche come stagioni da cambio d’abito ma identiche, legate dalla stessa ansia dell’individuo di farsi simbolo del suo tempo

Cosa pensate della situazione della cultura in Italia?

(Risata. Poi, colpi di tosse. Infine, un colpo d’arma da fuoco).

E dei teatranti che si legano al carro della politica e poi la contestano occupando i teatri?

Oggi l’occupante è un altro ruolo da interpretare per un giovane attore che cerca di farsi strada nel mondo dello spettacolo. A parte questo, ci sono sicuramente persone più motivate che cercano concretamente di fare breccia in un sistema canceroso.   Che poi la Circe ammaliatrice del successo resti sulla riva a sedurli con un infinito canto, diventa una questione puramente soggettiva. Jean Cocteau ripeteva che la purezza di una rivoluzione può durare al massimo due settimane.

E i progetti prossimi venturi di Ricci/Forte in che direzione li porteranno?

Si sta pensando con il critico Rodolfo di Giammarco ad un ri-arruolamento per l’edizione de luxe del Festival Garofano Verde che, quest’anno, raggiunge la sua 20° edizione. Dopo aver creato, quattro anni fa, Macadamia Nut Brittle, stiamo riflettendo sul ritornare a Giugno con una iperbole emotiva germinata dal bullismo e dalle prevaricazioni a scuola verso i giovani gay: l’ignoranza che contagia fino all’estinzione. Stiamo anche lavorando  al nuovo progetto che vedrà la luce nella prossima edizione del Romaeuropa Festival, ad Ottobre 2013. Un riflessione disincantata sul senso di Giustizia e su quanto abbiamo perso di ancestrale in questo apparente assetto sociale che ci organizza. Eschilo ci sarà compagno fedele e con lui obliteremo il Passato come un biglietto lasciapassare per questa ennesima avventura a piedi nudi…

 

 

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