di Bo Summer’s twitter@fabiogalli61
Bo Summer’s:
Non mi dilungherò ora a parlarLe del dolore.
Non serve, è troppo privato. E poi che importanza può avere?
… le rubo solo pochi momenti. Vorrei ringraziarla per la storia di Martino [parlavo di Dogana d’amore, appena edito]. Egli è là, in quell’universo fantastico che lo separa da questo, sul limite del vero, alla soglia della magia. Quel libro.
Sono rimasto affascinato da questa fiaba come, a suo tempo, restai abbagliato dall’Iguana [iguanuccia cara di Anna Maria Ortese].
L’inferno, cortese signore, è non amare più.
Forse è Martino stesso (lo stesso mio Martìn che amai, quanto tempo è passato) che mi raggiungerà, un giorno. Oppure lo raggiungerò io. Chissà.
Sono quasi felice d’aver ritrovato Martìn cresciuto: più adulto, più affascinante, più disperatamente solo nel suo racconto.
La ringrazio ancora e mi scuso per i disturbo che posso averle arrecato. Non me ne voglia per questo.
[30 ottobre 1986]
… agli dèi, proprietari delle proprie reggie, occorre un sacrificio. Martino. Come darLe torto. Alla loro luce donare qualcos’altro. Come darLe torto quando alla luce io invece posso offrire solo il segno del mio corpo e della mia scrittura (e tale mai sarà) che sa essere l’unico capo espiatorio al lavoro che sempre precede.
Come se scrivere fosse offerta, o dono. Ma no, non credo sia così.
Errore poetico? (Poetico non saprei). Questo il punto che mi preme e che permette di chiarire l’idea di partenza, l’incertezza, del mio lavoro. Io ottuso. Ottusissimo. Frequentatore di pittori, scultori [in quegli anni Fiori Chiari e Fiori Oscuri, adiacenti Brera, erano mio dominio e il sapere inconsueto di Jole De Sanna mi era preziosissimo] del loro operare degradato. So che il vuoto non esiste (è pieno, stracolmo) e non a caso nomino Medardo Rosso. Mi perdoni l’intransigenza. Mi scusi, non voglio corregrLa ma ne va anche del mio corpo (sacrificato).
Non valuto il vuoto e non sto cercando di vederlo perché non esiste. E lo so, dolorosamente.
Non mi dilungherò ora a parlarLe del dolore. Non serve, è troppo privato. E poi che importanza può avere?
Io ho sofferto, e soffro, il soffribile. Non ho mai accettato la condanna di scrivere. Vivo nell’incubo di riscoprirmi o non riscoprirmi nelle cose che scrivo. Ne ho terrore. Un confuso terrore. E un piacere acerrimo che mi trascina nel particolare, nel morboso dettagliato resoconto di me, delle cose.
Più che “errore poetico” direi incertezza impoetica, perché di questo si tratta.
[12 novembre 1986]
… tutte queste mie lotte, nello scrivere, hanno una loro vita, coronata dall’oblio, che non meritano, mi pare, di conclusione.
Se devo, tentativo deprecabilissimo, dare una spiegazione a questo mio lavorìo in prosa, che data oramai un anno esatto, lo definirò soltanto attraverso parole che esprimano vergogna proprio perché nessuno degli elemnti che lo compongono mi lascia una sola possibilità di accettarlo. Non mi è gradito!
Ho saputo tutto que che è successo, mentre andavo scrivendo, ed ora il mio odio è più grande perché non trovo più nulla. Tutto mi viene negato. Pure il mio amore.
Non oso, ancora, denunciarmi come uno scrittore ma mi sento tranquillo, imperturbabile nel mio quotidiano scrivere, obbediente al vecchio dettame di Baudelaire.
È, il mio, tutto un sistema di solitarie operazioni – mi accorgo, e ne sono contento, di ciò che è la letteraura oggi intorno a me e io non ne faccio parte – e queste finiscono, inevitabilmente, per appartenermi, tanto assunte da non identiicarle più al di fuori di me stesso, non ritrovarle più, perfettamente mie e che non riesc o a on spartire almeno con la pagina bianca.
[20 novembre 1986]
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