Bo Summer’s: Nel nome del plagio, Aldo Braibanti. Un ricordo

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Aldo Braibantidi Bo Summer’s twitter@fabiogalli61

1968. Con Aldo Braibanti finì alla sbarra l’omosessualità. Venne condannato a nove anni di reclusione, poi ridotti a quattro, e rinchiuso a Regina Coeli, mentre il suo compagno finiva in manicomio.

In carcere ci restò per due lunghi due anni. Vi uscì il 5 dicembre 1969. Accusato di essere un “ladro d’anime”, un “diabolico invasore di spiriti”, la “reincarnazione del demonio”, divenne il capro espiatorio di un’Italia ancorata al passato, terrorizzata dai forti cambiamenti sociali che stavano all’orizzonte, desiderosa di reprimere col pugno di ferro qualunque turbativa all’ordine morale e sessuale pre-costituito. Erano gli anni in cui l’essere apertamente gay suonava scandaloso, intollerabile. Si rischiavano i rigori della legge [come era accaduto anche a Pasolini].

Il reato di plagio, inserito in età fascista nel codice penale e mai applicato prima, presente in nessun codice penale del mondo, e mai più applicato dopo, sarebbe stato cancellato dal nostro ordinamento solo nel 1981.

L’unico, nella storia della Repubblica, a essere condannato per il reato di plagio, inteso come la riduzione in proprio potere «e in totale stato di soggezione» di un’altra persona, come recitava la legge ereditata dal Codice Rocco dell’Italia fascista. Venne incarcerato e processato in quanto omosessuale, non c’è altra spiegazione, e il giudizio cui fu sottoposto rimane come il segno di un’epoca, che in ogni caso fu dichiarato incostituzionale solo nel 1981.

Studente universitario a Firenze, partigiano dal 1940 con Giustizia e Libertà e poi nel Pci, fu arrestato due volte e torturato [ironia della sorte: questo gli valse come sconto di pena nell’assurdo processo]. Era un dirigente di primo piano del Pci, ma presto abbandonò la politica attiva, radunando intorno a sé, tra Roma a Castell’Arquato, intellettuali e artisti, da Sylvano Bussotti all’allora giovanissimo Marco Bellocchio, con cui lavorò alla fondazione dei memorabili «Quaderni Piacentini», la rivista di punta nella cultura del ‘68.

Studioso di filosofia, poeta, artista, si definiva un libero pensatore; durante il processo era per i media «il professore», ma non ha mai insegnato. Fu un animatore culturale, questo sì, con un passato politico importante.

Studiava le formiche e si dedicava ai collages, scriveva opere teatrali e sceneggiature, si misurò col cinema sperimentale. Intellettuale discreto e multiforme, era noto in una cerchia relativamente ristretta.

La sua fu una vicenda particolare e complessa, proiettata sulla gogna pubblica da un assurdo intrico di famiglia che non riguardava lui, ma il compagno Giovanni Sanfratello il cui padre sporse denuncia a Braibanti nel ‘64, alla Procura di Roma, accusandolo, come già detto, di plagio. Era l’unica via giudiziaria possibile per poter “recuparare” il figlio, dato che Giovanni aveva 24 anni, e dunque essendo maggiorenne poteva fare, almeno in teoria, quel che gli pareva.

I due vivevano insieme da tempo, dopo essersi incontrati nel laboratorio artistico «Torre Farnese» che Braibanti aveva nel suo paese del Piacentino. In rotta con la famiglia molto tradizionalista, il ragazzo si era trasferito a Roma col suo amore, apertamente e senza nascondersi. Oggi sarebbero una coppia gay come tante, probabilmente presa a bastonate all’uscita di un bar, allora, invece, fu avviata una lunga inchiesta, mentre il povero Giovanni Sanfratello veniva letteralmente prelevato dai famigliari e rinchiuso per due anni in manicomio. Fu una vicenda terribilmente grottesca. Ne sarebbe uscito, dopo una terapia a base di elettochoc, con il divieto di leggere libri che non avessero meno di cent’anni.

Intanto l’inchiesta procedeva. Nel ‘67 Braibanti venne arrestato, e il 14 luglio 1968 arrivò la sentenza: nove anni di carcere per «plagio», ridotti a sette per i meriti partigiani, e a due un anno dopo, in Corte d’Appello. Giovanni Sanfratello aveva tentato in ogni modo, durante i processi, di scagionare l’amico, ma ovviamente non era stato preso in considerazione. Era un «plagiato», dunque non credibile. Pare un film. Un’ottima trama. Ma si sa che la realtà supera la finzione.
In sua difesa insorse un movimento d’opinione per la cancellazione di un reato assurdo capeggiato da Moravia, Eco, Pasolini e Pannella: l’omosessualità dichiarata nel ’68 era qualcosa di molto imbarazzante perché era la rivoluzione. E quella rivoluzione fu la macchia, lo fu durante il processo, e lo restò per molti anni ancora, quando tornato libero Aldo Braibanti, vittima esemplare di un’Italia ferocemente bigotta, si rifugiò nel suo torrione e riprese il lavoro di sempre.
Scomparso pochi giorni fa, a 92 anni.Non inseguiva il successo. Nel 2006 gli venne concesso il piccolo assegno mensile previsto dalla «legge Bacchelli» per il sostengo di personalità di alto profilo culturale in condizioni di estremo bisogno. Se di un risarcimento si trattava, arrivò tardi. Come spesso accade.

In molti ne hanno scritto in questi giorni, e meglio di me. Io non lo avrei fatto se non mi fosse stato amorevolmente chiesto. Io non ho molto da dire su questa vicenda, si racconta da sola. Ho voluto semplicemente narrarla per i pochi che non sanno. A futura memoria.

 

 

 

 

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