Dopo averle assegnato il Premio Gaiaitalia.com, premio assegnato dai nostri critici teatrali all’interno del Roma Fringe Festival 2014, non poteva mancare una approfondita chiacchierata con Emanuela Bianchi, anima dello spettacolo e attrice e performer di indubbio talento.
E’ con piacere che le abbiamo rivolto alcune domande sullo spettacolo Lamagara, in una luce più attuale, quotidiana e meno legata alla performance spettacolare in sé, per megli fare conoscere ai nostri lettori il lavoro che sta a monte di uno spettacolo imperdibile.
L’intervista:
Lamagara, racconta una storia – realmente avvenuta, quindi patrimonio della nazione – di abusi su una donna accusata di stregoneria. Ci voleva un’attrice per ricordarla?
Probabilmente ci voleva anche un’attrice, in verità credo che molte volte l’arte si sia fatta portatrice di pensieri, racconti e azioni che sono parte della coscienza collettiva, prima di altri organi deputati e competenti, questo perché l’arte ha anche il coraggio di raccontare ciò di cui si avverte il bisogno, di dare voce a chi non può parlare, captando l’urgenza di far emergere saperi che rimangono spesso nascosti nelle pieghe della storia; una Storia scritta e tramandata che predilige grandi eventi piuttosto che guardare a quel tessuto quotidiano ricco di individualità che anche ha impregnato, scavato e cambiato lentamente il corso degli eventi. Cecilia parla per tutte le donne.
Ci racconta qualcosa di Cecilia Faragò, protagonista della storia che Lei racconta nel suo lavoro?
Troviamo la vicenda di Cecilia Faragò raccontata attraverso i documenti che riguardano l’avvocato difensore Giuseppe Raffaelli, figura celebre tra i giuristi italiani, la sua difesa colpì straordinariamente Tanucci e il Re Ferdinando e il processo celebrato nel 1770 presso la gran corte della vicaria di Napoli contro Cecilia, accusata di fattucchierìa, segnò la fine dei processi per stregoneria e magia nel regno delle due Sicilie. Di Cecilia si hanno poche notizie, ad esempio non conosciamo la sua data di nascita (presumibilmente qualche anno prima del 1712) e risalendo dal cognome sicuramente nacque a Zagarise, sposatasi con il massaro Lorenzo Gareri si trasferì a Soveria. Non risultando tra i possidenti presenti nel catasto onciario del 1743 di Zagarise, possiamo collocarla sulla scala degli status sociali come di modesta condizione sociale. Nel 1762 muore il marito e soli 4 anni dopo il figlio Andrea, secondogenito; sappiamo che il primogenito entrò nel convento di frati francescani in tenera età. Comprendiamo dagli atti testamentari di Lorenzo e dagli atti del matrimonio del figlio Andrea come gli uomini Gareri fossero ferventi cattolici; negli atti si evince una preoccupazione per la salvezza eterna nell’aldilà che si tramuta in un prezzo, “messa cantata in perpetuum et mundo durante”, Andrea lascia persino parte della sua eredità alla chiesa: Probabilmente attratti da questo pingue patrimonio i preti don Francesco Biamonte e don Domenico Vecchitti cercarono di pretendere anche il lascito di Cecilia. In casa di Cecilia furono sequestrati unguenti, erbe e minerali, tutti prodotti naturali che evidentemente Cecilia utilizzava, come un’erborista o una curatrice, usando rimedi naturali che presumibilmente si tramandavano di generazione in generazione. Una memoria negata. Ricordiamo che nella seconda metà del 700 le condizioni sociali dell’hinterland catanzarese erano molto precarie, le donne in netta subalternità sia in famiglia che in società, la vita quotidiana era il lavoro nei campi e i ritmi erano scanditi dalle funzioni religiose, la superstizione era ancora diffusissima. Cecilia non amava andare in chiesa né stare in piazza, ma ad esser sincera non ricordo più se l’ho letto o l’ho inventato! Sicuramente sarà stata allontanata dai vicini come ancora capita per le strade dei paesi del sud, come si dice quando “ti cacciano il saluto”. Fu emarginata.
Cecilia muore nel 1785 nella casa di Gaetano Crisani, molto probabilmente in povertà. E questi sono alcuni dei dati certi, con un bel lavoro artistico pre-espressivo e incrociando dati antropologici è emersa Cecilia, una donna sola, coraggiosissima e tenace che ha fatto vacillare l’enorme potere economico e sociale perpetrato dalla Chiesa con strumenti di pressione e consenso. Un potere che da lì a breve sarebbe crollato come dimostra la riduzione della presenza della Chiesa e la vendita dei suoi beni da parte della Cassa Sacra.
La ragione per cui Cecilia Faragò viene processata è legata al desiderio della Chiesa di impadronirsi del suo patrimonio?
Si decisamente. I due canonici di Soveria saranno stati attratti dal patrimonio evidente nei lasciti testamentari, sebbene non ridurrei la questione all’avidità bensì più sottilmente al desiderio da parte di chi detiene il potere di mantenere un controllo sociale e culturale sulle persone. Di schiacciare chi non è d’accordo, chi è “pericolosamente diverso”. La macchinazione per trarre in inganno la comunità sociale e i giudici è l’orrore della vicenda Faragò. Un meccanismo anche questo che dal passato riemerge, carne della carne, e si ritrova con abiti diversi negli intrighi cui assistiamo anche oggi: manipolazione delle prove, corruzione dei testimoni, passaggi di incartamenti da una scrivania ad un’altra fino a trovare l’addetto compiacente, l’isolamento sociale, il fare leva sulla crisi e la povertà per creare consensi e controllo, l’uso e la strumentalizzazione del precariato sociale ed emotivo.
Quando parlo di condizionamento sociale e controllo sociale ad opera della Chiesa, parlo del lato demoniaco del potere. E chiunque ha potere non deve sottovalutare questo lato.
E’ quindi l’eterno scontro tra un mondo maschile che vuole dominare le donne e le donne che si ribellano, o vuole raccontare qualcosa di più profondo?
Nella storia di Cecilia c’è un punto fondamentale che salta agli occhi – o al cuore?!? – la non accettazione da parte della comunità della sua solitudine, il suo non volersi risposare, il suo rifiuto a sottostare ad una legge fatta dagli uomini per gli uomini (fatta dai maschi per i maschi). La caccia alle streghe è stata un atto di femminicidio. Il terrore del femmineo.
Come stupirsi, la stessa parola democrazia che ci deriva dalla democrazia ateniese, traducibile come superiorità del popolo, deriva da supremazia, vittoria militare sul nemico interno o esterno (kratos) e guarda caso dal popolo era, di fatto, esclusa la donna (ricordiamoci che in Italia il diritto di voto viene acquisito nel marzo del 1946 e oggi dobbiamo parlare di quote rosa!).
Se pensiamo in maniera dicotomica troviamo sempre qualcuno che domina e qualcuno che si ribella, finché rimaniamo nell’ottica della supremazia ci sarà sempre qualcuno che vince e qualcuno che perde.
Cecilia semplicemente è rimasta fedele a se stessa, alle sue idee, al suo modo di essere, la sua centralità è la sua forza, la sua sete di giustizia ha spiazzato, la ribellione è solo un effetto visibile, un appellativo dato alla sua forza, collocandola nella dinamica di potere dominante e potere subalterno la definiamo ribelle, eppure- io credo, mi piace credere- Cecilia sarebbe stata in qualsiasi luogo e tempo, così: determinata a portare avanti le sue scelte nonostante tutto e tutti.
Come decide di mettere in scena lo spettacolo?
Dopo il lavoro su Cassandra (Semasia, l’universo in Cassandra) nel 2010 decisi di elaborare un trittico, tre storie di donne, leggevo Medea di C. Wolf, Fuochi di M. Yourcenar, cercavo documenti e poi ho cercato nella mia terra, la Calabria, studiai la brigantessa Ciccilla, la contessa Ruffo di Calabria per esempio; fu mia madre che mi portò un libretto “Cecilia Faragò, L’ultima fattucchiera” (del prof. Mario Casaburi).
Mi appassionai a Cecilia, da allora ho pensato diverse messe in scena, e ho fatto diversi tentativi sapevo solo due cose: arrivare all’essenziale, al cuore, e continuare la mia ricerca sull’elemento elastico.
Ostacoli?
Molti, com’è naturale che sia; gli ostacoli fanno parte della nostra vita, sono delle grandi opportunità, al pari delle soprese inaspettate si presentano e ci parlano. Grazie agli ostacoli ho capito dove volevo andare. Il percorso per Lamagara è stato molto duro, sia a livello personale che professionale, eppure quello che ricordo è proprio questa lotta per superare gli ostacoli; mio padre mi ha insegnato con la sua stessa vita ad affrontare tutto con dignità e coraggio, da allora ogni ostacolo non è che un mio personale limite e posso superarlo, quanto meno provarci, dipende da me. A volte ho perso, a volte ho vinto.
A quando risale il debutto de Lamagara?
Lamagara è andata in scena per la prima volta una sera di giugno nel giardino di mia sorella appena arato, per un pubblico speciale, le persone che mi hanno seguito e sostenuto in questo percorso: Lucia, Maria e Giorgia, le magare! È stato un giorno speciale, lavoravo da due mesi nuovamente sul personaggio di Cecilia e cercavo una dimensione onirica… come di una donna che veramente viene chiamata dal passato per raccontare la sua testimonianza, una donna di allora che deve parlare (di) adesso. Mi sentivo pronta per condividere la ricerca con le mie amiche. Quel giorno prese vita Cecilia. Il debutto de Lamagara al pubblico è stato proprio il Roma Fringe Festival, sebbene sia passata da tre versioni diverse: una prima, mai andata in scena su un testo provvisorio tratto dal libro di Casaburi; una seconda, Veneficas Calabriae produzione Confine Incerto per Re-act (Residenza Teatrale Città di Soverato), e Lamagara la definitiva.
Soddisfatta dell’accoglienza ricevuta dallo spettacolo?
Si, l’accoglienza da parte del pubblico e della critica sono andate al di là delle mie previsioni, il pubblico ha partecipato numeroso il che per una compagnia pressoché sconosciuta al pubblico romano è stata una bella sorpresa. Le critiche sono state tutte di grande aiuto, hanno messo in evidenza aspetti della storia e del lavoro artistico che hanno rinnovato il mio – e nostro – slancio a migliorarci. Sento un profondo senso di gratitudine verso tutte le persone che si sono prese cura di noi, che si sono fermate a parlarci, salutarci o solo abbracciarci. Raccolgo con gioia e senso di responsabilitàil premio della critica di Gaiaitalia.com e farò del mio meglio per onorarlo.
Questa struttura narrativa diluita tra teatro, teatro danza e acrobazie fa parte del suo linguaggio espressivo o è qualcosa nato specificamente per Lamagara?
È il mio metodo di lavoro, mi sono formata con diversi maestri e dal mio primo spettacolo da solista (Racconti dal resto del mondo) studio e approfondisco diverse forme espressive che stanno inevitabilmente costituendo un linguaggio personale. Ogni lavoro apre ovviamente prospettive inaspettate, domande nuove che non hanno a che fare solo con la tecnica, ma che cercano un’espressione, che cercano un varco. Penso al teatro come un luogo/tempo dentro al quale miscelare ed equilibrare gli ingredienti in modo da far scaturire un’opera che lasci sempre aperta una porta all’immaginazione di chi la vive. Le domande vengono fuori dalla contemporaneità e anche il linguaggio, che con essa si evolve e si nutre. Non riesco a pensare al teatro che propongo come diviso. L’urgenza del dare voce mi “costringe” a scegliere e miscelare gli ingredienti che possiedo, per esprimere al meglio l’essenza che ogni storia porta con sè, per parlare al cuore delle persone e al mio.
Cosa le è rimasto del Roma Fringe Festival?
È stata un’esperienza stimolante lavorare nel contesto fringe, all’aperto, nel cuore pulsante di San Lorenzo e con tempi ristrettissimi, avevamo preimpostato il lavoro di montaggio scena e luci dalla Calabria, e provato in contesti aperti per prepararci, è stato divertente; molto costruttivo lo scambio con alcune delle compagnie italiane e straniere, abbiamo stretto rapporti, questi legami sono il dono del Festival.
Come ha cominciato col mestiere di attrice?
Sin da piccola facevo gli spettacoli in casa con l’aiuto dei miei familiari, a 16 anni ho iniziato a frequentare una scuola di recitazione (Scuola Enzo Corea) a Catanzaro e dopo le scuole superiori mentre ero intenta a studiare antropologia all’Università di Sociologia la Sapienza di Roma e frequentare un breve uditorato presso la Silvio D’Amico, ho incontrato il teatro antropologico di V. Turner e il teatro sensoriale con Paolo Vignolo, grazie a Paolo, con un gruppo di amici fondammo Residui Teatro e iniziammo un lungo apprendistato passando per Enrique Vargas; il teatro danza con Marta Ruiz, teatro dell’azione fisica, teatro interattivo, voce e ritmica insomma da lì è iniziata la ricerca espressiva e tecnica, una paziente e costante formazione con diversi maestri.
Qual è il regalo più bello che le è stato dato dal suo lavoro?
Il più bel regalo senza dubbio le persone che mi circondano e che incontro grazie al teatro.
Progetti futuri?
Concludere il trittico! Scegliere la terza donna.
Dello spettacolo abbiamo scritto, e non vogliamo scrivere di più.
Concludiamo dicendo che nel complicatissimo panorama teatrale italiano contemporaneo, complicatissimo sia artisticamente, che culturalmente, che dal punto di vista organizzativo, oltre alla cronica e sempre più profonda mancanza di criterio nell’erogazione di fondi, sempre più mirati alla consacrazione dell’esistente a scapito della ricerca, spettacoli come Lamagara ci riconciliano con il nostro mestiere di operatori dell’informazione e di promotori culturali.
(24 luglio 2014)
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