Bo Summer su Christopher Isherwood: quasi fuori tempo massimo

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Christopher Isherwooddi Bo Summer’s  twitter@fabiogalli61

Non son tanto celebrativo, io. Dato che me ne sto accucciato. Si sa. E poi non rispetto le date, son fuori tempo. Anche stavolta quasi fuori tempo massimo per una celebrazione. E non faccio pezzi su commissione. Vado dritto per la mia strada. Si sa. Ma a volte sì. Dipende. In questo caso ho deciso di accettare perché quello di Isherwood, ad esempio in Addio a Berlino [che è poi il libro che mi ha avvicinato a lui] è un obiettivo preciso, attraverso il quale tutti noi partecipiamo on stage ai suoi incontri nel cuore pulsante di una Repubblica di Weimar che si avvia al suo cheto tramonto: da un’eccentrica, anziana affittacamere alla sensuale Sally Bowles, aspirante attrice un po’ svampita, a Otto, ombroso proletario diciassettenne, a Natalia Landauer, rampolla di una colta famiglia ebrea dell’alta società.

Vediamo se questo resoconto mi è possibile.

Tra cabaret e caffè, tra case signorili e squallide pensioni, tra il puzzo delle cucine e quello delle latrine, tra file per il pane e manifestazioni di piazza, tra crisi economica e cupa euforia, Isherwood mette in scena la prova generale di una catastrofe e ci fa assistere all’ascesa del nazismo e su tutto, sul racconto minimo e frammentario tipico dei diari, domina un clima, un’atmosfera onnipresente e immutabile, che è la vera protagonista della sua scrittura: l’inquietudine per qualcosa che non si conosce ma sta arrivando, una malinconia metropolitana che attanaglia più i cittadini berlinesi che il forestiero, che ha sempre una via di fuga.

E comunque se tragedia c’è stata [e c’è stata e di quali inumane dimensioni] essa è nella sequenza di fatti di vita ordinaria narrati con umana compassione, ma senza indulgenze.

Natalia qui è in un certo senso il futuro, l’individuo che potrà avere come sola patria i soldi, suo cugino Bernhard è il presente, appartiene alla Germania prussiana che scomparirà proprio con la fine del nazismo.

La scrittura di Isherwood colpisce sin dalle prime pagine per la mirabile capacità di descrivere con pochi, essenziali tratti la straordinaria complessità dell’universo che lo circonda.

Addio a Berlino ha il valore di grande testimonianza oltre che di pregevole opera letteraria, tanto da far scaturire musical e il celeberrimo film Cabaret di Bob Fosse. Ma non solo: cogliendo con ironia corrosiva i presaghi rintocchi che accompagnano la grandeur di un mondo «inutilmente solido, insolitamente pesante», ci consegna una purissima, scabra narrazione che ci ricorda come la Storia – e ogni storia – sia sempre contemporanea. Non è giudice né confessore, ci aiuta solo a capire quanto la banalità del male sia un albero che cresce e trova alimento in terreni di coltura quali le grandi crisi economiche che si abbattono su mondi afflitti dal senso venefico di una presunta grandezza.

La ricerca perpetua della propria identità perduta o mai trovata assimila uomini e donne agli antipodi. Presenza di uno scrittore, un testimone straniero, nella Berlino della Repubblica morente come vantaggio per la comprensione del clima e della situazione della Germania del periodo, una possibilità che forse solo un corrispondente poteva avere.

La dichiarazione, “Io sono una macchina fotografica”, è quindi solo un inganno, un intento impossibile.

Isherwood registra tipi umani senza affondare la lama di una facile e scontata critica e mette alla berlina anche il proprio io narrante. Architetta un diario per trasmettere l’imponderabile, e cioè la testimonianza di un’intera epoca, di un momento cruciale impossibile da isolare e analizzare, e lo fa “riducendo” la Storia alla sua. E lo fa soprattutto attraverso i suoi personaggi. Sole, ville, colori che sembrano una scelta d’evasione, dopo le tenebre di una città e di un continente sull’orlo del precipizio ma anche il rapporto nevrotico e circospetto che Isherwood ha con Berlino.

Quindi va detto che il libro nasce proprio così, come un tentativo di fotografare la situazione civile e politica della Berlino dal ’30 al ’33 senza giudicare, semplicemente esponendo i fatti. La continuità storica quasi programmata tra un romanzo e l’altro, ci suggeriscono che dovremmo prendere il lavoro di Isherwood sempre per intero: il viaggio nella storia di un single man che ha deciso di auto-eleggersi, a forza di scrittura, testimone e voce del suo tempo.

Il fascino di Weimar, l’ambiguità e la breve stagione di libertà sessuale che vi si respirava, sembra la stessa che Bowie rappresenterà più tardi nella sua trilogia di Berlino.

I protagonisti vivono come su un piano inclinato, senza neppure sapere per quale ragione stanno correndo verso la catastrofe. Narrare composto durante il lungo soggiorno nella città, tra continui traslochi in pensioni che toccano tutti i gradi dal discreto al fatiscente, incontri casuali o insignificanti, amicizie dominate dalla malinconia o dall’apatia, vagabondaggi in una città enorme “otto volte più grande di Parigi”. E che la Berlino degli Anni Trenta al tramonto della Repubblica di Weimar sia stata un groviglio di fosche contraddizioni è fatto consegnato alle pagine più buie della storia umana.

Christopher incontra delle persone così rappresentative di ciascun tipo antropologico da sembrare frutto di pura invenzione. Ma Berlino era davvero così, maestosamente grigia e angosciante, attraversata dal filo elettrico di un’euforia della catastrofe, così smisurata da diventare raccontabile. Ci descrive un mondo dall’apparente solidità che non s’avvede del tarlo fatale che lo consuma. Scelse Berlino dopo il suo netto rifiuto dell’Inghilterra, del perbenismo, della tradizione troppo pesante, e dopo averla lasciata, passando per una bizzarra convivenza collettiva a Sintra, in Portogallo, insieme a Spender e ai loro amanti, si trasferì con Auden in California, per sempre. Là l’angoscia che permea Addio a Berlino si scioglierà soltanto nell’estate del 1945, celebrata e raccontata in Un uomo solo, scritto nel 1964 e ambientato proprio in California.

Oltre le mere questioni interne alla letteratura, perché dovremmo leggere oggi Addio a Berlino? è il residuo di un’opera concepita e mai scritta, una sorta di grande romanzo sulla capitale tedesca pre-hitleriana, che avrebbe dovuto intitolarsi The Lost (I perduti). Deve essere sembrata una sorta di opera profetica, o un instant book ante litteram, per un’Inghilterra sonnacchiosa che, assieme al resto d’Europa, si accorse tardi delle conseguenze dell’ascesa al potere di Hitler.

“Il sole splende, e Hitler è il padrone di questa città”, chiude così Addio a Berlino.

“Io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto” dichiara l’alter ego di Christopher Isherwood.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(26 agosto 2014)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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