di Giuseppe Enzo sciarra, (terza puntata)
(… continua)
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La depressione è un maleficio,
mette a tacere guizzi di soffio vitale,
agisce sulla nostra forza a cui non crediamo più,
potenze occulte ci dilaniano nelle pieghe dell’anima.
Oggi vorrei non alzarmi. Sto male. Sento che è inutile vivere. Non ha senso nulla, le passioni umane hanno qualcosa di sinistro. L’esserci al mondo mi rende smarrito e continuo a vedermi in lontananza, sempre più agito da un male oscuro che determina le mie azioni e miei pensieri.
Ho sofferto di depressione per anni. Gli anni della mia adolescenza. Tutto è iniziato quando mi sono sentito rifiutato dai miei coetanei ” dicevano che ero frocio”. L’esistenza mi mise delle catene. Non accettavo a dodici anni di essere gay ( il mondo li disprezzava e la gente diceva che gli omosessuali erano infelici perché chiunque li ammoniva ). “Si è contronatura se si è finocchi e contro di Dio”! Credevo all’epoca in preda al terrore.
Agnello di Dio che togli i peccati del mondo abbi pietà di noi.
Da bambino volevo vivere l’adolescenza come i miei coetanei. Me l’hanno impedito e li ho lasciati fare per salvarmi la vita. ” Dell’amore mi sono privato, sacrificando sulla croce i miei sentimenti. Mi crocifissi a testa in giù come San Pietro. L’inconscio è stato il luogo del martirio”.
Agnello di Dio che togli i peccati del mondo abbi pietà di noi.
Vissi come un santo di vita monastica e ascetica. I miei coetanei vivevano le prime esperienze sentimentali e sessuali mentre io per timore delle malelingue e di essere ammazzato sacrificai i miei istinti alla buona reputazione e cercai di curarmi.
Agnello di Dio che togli i peccati del mondo … Non perdonare chi ci ha lapidato. Puniscilo! Io non perdono chi ha tentato di uccidermi con parole aguzze e volgari.
Alla fine non sono guarito dall’omosessualità figli di puttana! Non ce l’avete fatta. Storpi nell’animo vi inculo io sul patibolo!
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Mi ero innamorato di lui! La maschera del teatro degli ignoti. Ma non sapevo il suo nome. Non sapevo chi era. Non sapevo se a parte il factotum a teatro facesse altro. Insomma, non sapevo un cazzo! Mi ero innamorato di un uomo bello, ma non buono che mi aveva fatto un maleficio (perché l’amavo senza conoscerlo, se non è stregoneria questa!); dovevo capire chi fosse il ragazzo scontroso che forse mi voleva ai suoi piedi come una geisha o uno schiavo la cui dignità deve cessare di esistere nella millenaria reverenza a quel suo padre padrone, la cui mascolinità va solo ossequiata. Decisi di indagare. Quale modo migliore che iniziare da Facebook. Lo cercai per un paio di minuti tra gli amici del Teatro degli Ignoti e subito lo riconobbi. Finalmente avevo scoperto il suo nome: Federico Maio. Professione attore. Studente presso la più importante accademia di recitazione in Italia. Nella sua foto profilo un sorriso radioso e spontaneo gli incorniciava il viso da scugnizzo, facendolo sembrare un altro: un ragazzo dolce, amabile, con begli occhioni affettuosi e cordiali, diverso dalla maschera del teatro a cui piace atteggiarsi da boss. Scorrendo le altre foto del suo profilo rimasi sorpreso nel non riconoscere quel bullo dagli occhi malevoli e pieni di livore. Lo vedevo nelle fotografie truccato da pagliaccio fare smorfie simpatiche e sciocche in un camerino, oppure giocare a pallone con un sorriso sempre stampato sulla faccia; un sorriso cialtrone, adorabile, da baciare. In un’altra immagine era vestito da Capitan Uncino e faceva il buffone sul palcoscenico in una rappresentazione di filodrammatici risalente a qualche anno prima che entrasse in accademia.
Federico adorava Walt Disney. Peter Pan era la sua fiaba preferita. Pubblicava un sacco di post sul ragazzo che non voleva mai crescere. Forse anche lui era un Peter Pan che con la recitazione voleva sfuggire alla realtà e a tutto quello che c’era attorno alla sua vita e che non prometteva nulla di buono. La mia curiosità era vorace di altre immagini che mi parlassero di lui. Uno sguardo mi illudeva di suggerirmi chissà quale verità sul suo conto; in realtà ad ogni foto che scorreva vedevo nei suoi occhi neri e ineffabili la fosca nebbia di una vallata, in cui le ombre che si intravedono non significano nulla, se non qualcosa che non ci appartiene e che non ci apparterrà. Perché non è nostro. In altre foto, alla fine – dopo un lungo peregrinare su Facebook alla ricerca del mio Sacro Graal – è fidanzato? Con una donna? Con un uomo? – riconobbi Querelle De Brest (ecco chi mi ricordava, il marinaio figlio di puttana del romanzo di Genet).
Ecco chi era il Federico Maio che avevo conosciuto accigliato e superbo: un Querelle De Brest altrettanto pericoloso che uccideva con la propria bellezza e tu non potevi sottrarti a quella morte di te che è un amplesso mancato (non c’è impresa più ardua e folle che convincere l’oscurità a seguirci verso la luce che da sempre stordisce e annoia chi si ostina a stare nel buio).
In una foto, in una posa scherzosa, stava con una ragazza carina e minuta a cui Federico era avvinghiato in maniera amichevole. Riconobbi, assieme a quei due, una mia vecchia conoscenza con cui anni prima avevo fatto un fallimentare laboratorio teatrale come attore, tal Gabriele De Amicis. Dunque si conoscevano. Erano nella stessa classe, De Amicis e Maio. Ed io morivo d’amore e di vergogna mentre li guardavo ridere di non so che in quella maledetta foto. Gabriele sapeva che ero gay eppure … che avrebbe pensato se veniva a conoscenza che avevo una cotta imbarazzante per il suo amico? Mi avrebbero deriso sicuramente, pensai. Ma dato che l’amore mi metteva in imbarazzo oltremodo ero io quello che si derideva da solo. Per ora. Poi l’amore per un ragazzo; un ragazzo che in quel momento inventavo per amore e per amare. Era, come ho già scritto, lo stereotipo del figlio di puttana, il buon Federico Maio. Quello che pensavo mi servisse per essere uomo anche se la tenerezza che cercavo nel suo disgusto era femminile e pure mi apparteneva. E mi vergognavo anche di questo. Di desiderarlo come una donna.
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Mio nonno era un ex militare, un comandante di navi che ha ricevuto durante gli anni della seconda guerra mondiale, medaglie al valore da Mussolini e dal re d’Italia Vittorio Emanuele III – due personaggi mica da ridere per lui. Me lo ricordo come un uomo anziano dalla carnagione scura, ma guai a dirglielo (odiava i neri). Un vecchietto piuttosto buffo che raccontava con nostalgia e spavalda adolescenziale arroganza gli aneddoti della sua carriera, soprattutto durante il periodo fascista che rimpiangeva – era un nostalgico del duce, per lui il fascismo aveva fatto solo cose buone e belle e bla bla bla bla perché si rimane sempre quel chi si è stati. Soprattutto da vecchi.
Nelle occasioni di festa si vestiva da comandante di marina: berretto da marinaio, pantalone e giacca blu con affisse le medaglie del “vanto mio e di mia moglie” per esser stato un capo come Benito a cui gli altri uomini dovevano dare conto e riverire – pena la sua ira che non ho mai conosciuto, per mia fortuna. Era un uomo amabile ai miei occhi e non vedevo in lui quella mentalità chiusa, xenofoba, schifosamente razzista e piena d’odio per i cosiddetti diversi che mi raccontava mia madre quando inveiva con parolacce contro lui e mia nonna. E pensare che io ero il suo nipote preferito. Chissà che direbbe adesso se sapesse che il suo amato discendente ama prenderlo nel culo? Lui che aveva sempre per mio cugino un linguaggio sprezzante per il suo stile di vita. Lo chiamava frocio. Se sapesse che il frocio vero tra noi due, ero io, il nipote prediletto. Mi maledirebbe di sicuro! La vita è beffarda con gli uomini veri o presunti tali. Figurarsi con gli altri che non sono né veri né presunti.
Mio nonno con mio padre era stato un padre padrone persecutore e persecutorio e altro altro ancora. Denigrava e disprezzava mio padre, mio nonno. Lo definiva un debosciato e un lavativo. Per lui suo figlio era una vergogna. Mio nonno poco più che adolescente entrò in marina ad ingoiare rospi, polvere, scarafaggi, in poche parole merda militare. Mentre suo figlio servito e riverito da sua madre amava fare una vita comoda e poco propensa al sacrificio. Questo pensava, il padre di mio padre. Così mio padre marinava la scuola. Faceva casini coi suoi amici tra scorribande e scherzi al vicinato per fare infuriare mio nonno, sempre pronto con la cinghia… E via a dargliele di santa ragione. Quando ero bambino ricordo tra i due un rapporto freddo, inesistente, nessuna traccia di affetto né dei dissapori passati. Indifferenza. Povero nonno e povero papà entrambi l’uno vittima dell’altro non si sono mai amati. Non potevano. Disastri del padre padrone.
(continua…)
(26 giugno 2021)
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