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Claudio Patucci, “Persona”: le voci teoriche di Butler, Foucault, Agamben, Haraway

di Fabio Galli

Claudio Paolucci, con il suo Persona, si inserisce con decisione in uno dei compiti teorici più urgenti e cruciali del nostro tempo: ripensare radicalmente il soggetto, svincolandolo dalle tradizioni metafisiche che lo hanno concepito come un’entità compatta, stabile, autonoma. In questa prospettiva, il soggetto non è più fondamento né centro unitario dell’esperienza; non è più un’identità fissa, chiusa in se stessa, coerente e sempre identica, bensì un movimento: un moto instabile tra posizioni differenti, un attraversamento di soglie, un continuo scivolamento che avviene attraverso gli atti del linguaggio, della relazione, del gesto. Il soggetto, in questo senso, si mostra come un evento — non qualcosa che è, ma qualcosa che accade, che si produce nella rete delle enunciazioni e delle pratiche, che prende forma solo nell’atto stesso del suo farsi.

In questo scenario di profonda revisione, le voci teoriche di Butler, Foucault, Agamben, Haraway — ciascuna a partire da traiettorie diverse ma convergenti — hanno contribuito a decostruire l’idea di un soggetto unitario, trasparente e naturale. Judith Butler, ad esempio, ha mostrato come l’identità di genere non sia un dato ma una performance iterativa; Michel Foucault ha scavato nelle genealogie del sé, mettendo in luce le tecnologie del potere e del sapere che lo costituiscono; Giorgio Agamben ha interrogato il rapporto tra linguaggio, potere e soggettivazione, ponendo l’attenzione sulla nuda vita; Donna Haraway ha introdotto una visione postumana, ibrida, cyborgica della soggettività. A questa costellazione critica, Paolucci aggiunge una forza concettuale ulteriore, che proviene dalla semiotica: propone infatti una “semiotica del sé”, una grammatica che non descrive tanto le essenze quanto le funzioni, una struttura che non si limita a catalogare identità ma a rappresentare il gioco mutevole delle maschere linguistiche e delle posture comunicative.

Ciò che emerge, allora, è una nozione di persona completamente riformulata: non più come qualcosa da recuperare, come un’essenza da ritrovare nel profondo, ma come qualcosa da produrre attivamente. La persona non è il risultato di una scoperta interiore, ma di una costruzione esteriorizzata, scenica, teatrale. O, per essere più precisi: è una messa in scena, una rappresentazione che si rinnova ogni volta, che si reinventa continuamente. Ogni atto enunciativo, ogni interazione, ogni contesto ci costringe a ricreare la persona che siamo o che possiamo diventare. Non c’è un volto unico da rivelare, ma una pluralità di maschere da abitare, disfare, ricombinare. La soggettività, in questa luce, è un laboratorio instabile, un processo di modulazione continua, una soglia sempre aperta tra ciò che siamo stati, ciò che sembriamo essere, e ciò che potremmo diventare.

 

 

(6 maggio 2025)

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