di Lonsito De Toledo
La notizia è ufficiale, verificata e persino misurata: Libreriamo — il media digitale dedicato alla cultura, quello che ancora crede che leggere faccia bene come bere acqua — ha condotto un’indagine che mette in scena un’Italia che non distingue un congiuntivo da un condominio. Se l’inchiesta dicesse che sette italiani su dieci non sanno cucinare un’amatriciana, sarebbe già rivolta nazionale. Ma toccare la grammatica? Ah, lì le reazioni sono molto più placide: un’alzata di spalle, un “si capisce lo stesso” e un sorriso disarmante da selfie fuori fuoco.
Libreriamo ha solo messo nero su bianco ciò che noi, nel nostro privato, sappiamo da anni: la lingua madre è diventata la lingua matrigna. Anzi, una zia ubriaca che nessuno ha voglia di correggere perché tanto domani non se la ricorderà.
L’apostrofo italiano oggi non vive: sopravvive. È diventato un animale randagio che vaga tra cartelloni pubblicitari, post sui social e comunicati aziendali con lo stesso sguardo perso che ha un piccione in Galleria Vittorio Emanuele.
L’indagine di Libreriamo conferma un sospetto che serpeggia da anni: gli italiani non ignorano l’apostrofo — semplicemente non credono nella sua autorità morale. Lo considerano un vezzo, un gioiellino ornamentale, una spilla da attaccare alle parole quando sembrano troppo nude.
Il risultato? “Qual’è” sfila sulle passerelle digitali con la stessa sicurezza con cui un influencer sfoggia un total look discutibile. “Un’altro” domina i commenti dei giornali online come un titolo nobiliare, mentre “po’ ” senza apostrofo viene considerato una raffinatezza obsoleta, tipo il fax.
E quando qualcuno tenta di correggere, parte il classico mantra post-grammaticale:
«Vabbè dai, si capisce lo stesso.»
Che è come dire: “Ho parcheggiato sulla rotonda, ma l’importante è l’intenzione”.
Poi c’è lo scandalo dei congiuntivi. Secondo Libreriamo, sono in pericolo quanto i ghepardi sahariani. Ma non perché non esistano più: perché non vengono più lasciati liberi di muoversi nel loro ecosistema naturale, cioè la frase complessa.
L’italiano medio vive sereno nella convinzione che “se lo sapevo venivo” sia perfettamente accettabile. Del resto, ogni volta che qualcuno osa dire “se lo avessi saputo, sarei venuto”, scatta attorno a lui un’aura di sospetto: sembra troppo corretto, troppo distinto, quasi snob.
Il congiuntivo ha ormai l’aura di un nobile decaduto: elegante, educato, bellissimo… ma nessuno lo invita più alle feste. E quando appare, lo si tratta come un ospite ingombrante: ci si scusa, si tossisce, si cambia discorso.
Eppure in teoria, quell’umile modo verbale dovrebbe esprimere finezza, dubbio, desiderio, incertezza.
Ma in un paese che vuole sempre avere ragione — anche quando sbaglia a scrivere “c’è ne” — il dubbio non va di moda.
Il pronome personale è diventato un oggetto contundente.
“Gli ho detto” rivolto a una donna.
“Le ho detto” rivolto a un uomo.
“Gliene lo ho detto” rivolto a nessuno, probabilmente scritto all’una di notte da un essere umano che ha smesso da tempo di lottare per la coerenza sintattica.
Il pronome, più che sbagliato, è abbandonato a sé stesso. Una creatura senza sorveglianza, libera di accoppiarsi con articoli e verbi nella più sfrenata promiscuità grammaticale. E il risultato è un lessico nazionale che sembra uscito da un laboratorio di Frankenstein semantici.
Libreriamo, nella sua indagine, ha fotografato questo fenomeno con la lucidità di un medico legale. E noi, nel nostro cuore, sappiamo che ha ragione: la frase media italiana è un campo minato dove anche un semplice “glielo” può esplodere in faccia.
In fondo, questa decadenza grammaticale ha un tratto tenero. L’Italia è un luogo dove la precisione non è mai stata di casa: siamo la patria della flessibilità, della genialità improvvisa, dei piani che cambiano, degli orari “verso le sette”, dei “vediamo”, degli “arrivo”.
E la lingua segue l’andamento emotivo della nazione: elastica, fantasiosa, teatrale.
Certo, spesso sgrammaticata. Ma con un certo charme.
Gli errori non sono solo errori: sono manifesti d’indipendenza.
“Propio” invece di “proprio”.
“Pultroppo” che trionfa come una nuova specie botanica.
“Ce né” che fa capolino come un animaletto timido.
Sono sbagli, sì. Ma sono anche la cifra stilistica del nostro rapporto conflittuale con tutto ciò che richieda costanza, rigore e memoria.
Libreriamo ha aperto una finestra: e fuori c’è un’Italia che parla tanto, scrive tantissimo, legge pochissimo e pensa… quando capita.
E tuttavia — ed è qui che il quadro diventa quasi commovente — la lingua italiana, con tutta la sua grammatica maltrattata, riesce ancora a comunicare emozioni, rabbia, poesia, gossip, minacce passive-aggressive e dichiarazioni d’amore.
La verità è che gli italiani non odiano la grammatica: la trattano come trattano il codice stradale.
Un suggerimento.
Un’opinione.
Una gentile raccomandazione.
Eppure la lingua resiste. Sopravvive. Si reinventa. Si incazza anche, ma sopravvive.
Forse un giorno gli apostrofi torneranno nei loro posti, i congiuntivi verranno risarciti moralmente e i pronomi riallineati.
O continueremo così, nel nostro caos naturale, incapaci di scrivere “pò” senza sentirci modernisti.
In ogni caso, una cosa è certa:
l’italiano rimane più bello dei suoi utenti.
E non è poco.
(12 dicembre 2025)
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