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Short Theatre 10, penultima di una serie di belle serate

Short Theatre 10 - 26 Figuradi Alessandro Paesano  twitter@Ale_Paesano

 

 

 

 

La penultima serata del decennale di Short Theatre si è aperto, almeno per chi scrive, con Manuale della figura umana. Primo studio per l’allestimento di un impaginato di Marta Dell’Angelo e Fiorenza Menni.

Marta Dell’Angelo è un’artista e il suo lavoro è incentrato sul corpo femminile. Nel 2007 pubblica il libro d’artista Manuale della figura umana nel quale indaga sull’immaginario collettivo di certo femminile impiegato in pubblicità e nelle immagini massmediatiche in genere.
Questo primo studio (per un pubblico di sole 15 persone) presentato a Short Theatre si ispira al suo libro del quale espone, sotto forma di allestimento per l’esposizione, una pagina del libro, riproposta su muro.

Tre momenti tramite i quali ragionare su quel che precede l’allestimento dell’opera d’arte, sul medesimo e sulla fruizione del pubblico di una mostra.
Ne risulta uno studio elegante ed intelligente sul cui farsi confluiscono e riconfluiscono elementi di diversi media.

Vediamo l’artista dialogare con incorporee – ma presentissime – maestranze alle quali spiega come vanno allestiti e preparati i materiali da mettere in mostra; assistiamo a due operai che eseguono il lavoro in tempo reale esattamente secondo le dettanze dell’artista. Infine una presenza femminile viene a leggere un libro che il pubblico è chiamato a sfogliare in una terza sala, a fine performance.

Una performance tra teatro e arte perfettamente palindroma. Come il soggetto d’arte esce dalla cornice del quadro per impossessarsi dello spazio del qui e ora della performance tutto quel che gravita intorno all’allestimento di una mostra d’arte (ri)entra nella cornice drammaturgica (di Fiorenza Menni), questi due farsi diversi ragionano l’uno sull’essenza dell’altro.

Il libri che nasce come oggetto da leggere e vedere diventa oggetto d’arte da contemplare come pezzo d’arte, esposto in una mostra(zione).

Impeccabile.
Short Theatre 10 - 27 Sorry BoysSorry Boys Dialoghi sulla mascolinità per attrice e teste mozze (primo studio) di Marta Cucusnà si ispira a una notizia di cronaca del 2008 – che ha ispirato anche un film francese – che vide 17 ragazze, tutte tra i 15 e i 16 anni, rimanere incinta al liceo di Gloucester (1200 studenti in tutto) nel Massachusetts.

Non si trattò di una coincidenza straordinaria (il numero delle ragazze incinta era circa il quadruplo della normale percentuale di ragazze con gravidanze indesiderate). Queste ragazze avevano cercato la gravidanza, espressione di un patto di maternità da gestire da sole senza gli uomini che pure inconsapevolmente vi avevano contribuito.
Marta Cucusnà, che aveva già presentato a Shorth Theatre 2013 lo splendido La semplicità ingannata, ne trae un plot per una drammaturgia della quale presenta a Short Theatre un primo studio.
Uno spettacolo di teatro di figura nel quale i personaggi sono (rap)presentati da delle teste meccaniche appese come trofei di caccia che l’artista manovra da dietro (rimanendo invisibile), muovendone collo e bocca tramite un meccanismo ricavato da dei freni di bicicletta alle quali dà voce.
I personaggi sono donne e uomini che hanno a che fare con le 17 ragazze incinta, siano il padre e la madre di una di essere, il solo padre di un’altra, la sola madre di un’altra ancora, o il preside pavido che cerca di insabbiare la cosa e una professoressa che, invece, vorrebbe dire la verità o, ancora, la madre di una ragazza nera, dal linguaggio sboccato e politicamente schierata.

Le dinamiche narrative di questo studio sono quelle del fumetto o della serie tv ma tra le righe di un divertimento di superficie si legge una feroce satira della pavidità maschile e della scaltrezza femminile e della morale (piccolo) borghese dell’apparenza (se sono rimaste incinta per un incidente o apposta non cambia niente).

Le grandi assenti sono le ragazze protagoniste della vicenda alle quali, almeno in questo primo studio, non è data voce alcuna, mentre i ragazzi, già assenti nell’evento reale che ha ispirato la piéce, tacciono com’è giusto che sia.

Le potenzialità dello spettacolo emergono da questo primo studio solo in parte.

Sul blog dell’artista autrice e attrice (sostenuta da Centrale Fies dove è in residenza dal 2009) si leggono altre intenzioni programmatiche sullo spettacolo (il dar voce alle protagoniste) mentre altre vicissitudini da cui lo spettacolo trae ispirazione sono riportate in una intervista televisiva su Rai5 dove Cucusnà si riferisce all’altro tasso di violenza maschile ai danni delle donne nella stessa cittadina, arrivando a leggere il patto tra le ragazze incinta che vogliono allevare la prole in una comune senza uomini, come la risultante di questo vissuto di violenza subita.

Fa scandalo anche per Cucusnà, evidentemente, che una donna o più donne, anche se molto giovani, possano decidere di avere prole per conto proprio, senza un maschio accanto che le aiuti nella crescita, come se queste storie siano nuove e inedite e non siano patrimonio comune di tante donne anche del nostro Paese, nella provincia come nella grande città.

Un passaggio del blog ci ha fatto poi cadere dalla sedia per l’errore grossolano che vi è contenuto. Cucusnà scrive che I generi sessuali sono delle unità (maschi, femmine, gay, lesbiche, transgender, bisex, ecc) che non stanno isolate, ma sono in stretta interdipendenza reciproca.

Naturalmente i generi sessuali sono esclusivamente due maschile (uomo) e femminile (donna) mentre l’essere lesbiche, gay e bisex riguarda l’orientamento sessuale (che NON E’ un genere, le lesbiche essendo sempre donne, i gay sempre uomini) mentre il transgenderismo pertiene all’identità di genere che si distingue dal sesso biologico… (posso cioè essere un maschio biologico ma sentirmi donna o viceversa…)
Un po’ di confusione che tradisce un giudizio terzosessista sulle omosessualità e che illumina in maniera più precisa il retropensiero dell’autrice che addita come assurda l’autodeterminazione di quelle giovani ragazze…

Non è forse un caso allora che i personaggi maschili nello strudio sono tutt’altro violenti e sembrano invece frustrati e povere vittime di alcune donne aggressive o che ne mettono comunque in discussione l’autorità.
Era solo un dubbio che ci era sorto ma la confusione sui generi corrobora quello che credevamo un nostro sguardo un po’ malizioso.

Short Theatre 10 - 21 SorryAgrupación Señor Serrano propongono A House in Asia (t.l. Una casa in Asia) una storia western nella quale contaminano alcuni topoi della cultura nordamericana il Moby Dick di Melville (così come è incarnato nella versione cinematografica del 1956 diretta da Joh Huston con Gregory Peck nel ruolo di Achab) le vicende di Geronimo (incarnato dal viso sereno e apparentemente remissivo di Anthony Quinn) mettendoli in relazione con l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 e la relativa operazione Geronimo (ma ufficialmente questo nome fu smentito) per uccidere Bill Laden del 2011.

Non temano il lettore e la lettrice puriste lo spettacolo di Agrupación Señor Serrano non costituisce affatto una colonizzazione cinematografica del teatro, al contrario, è una colonizzazione teatrale del cinema.

Short Theatre 10 - 22 SorrySu un impiantito grande quando la platea i tre performer interagiscono con dei modellini e una videocamera a circuito chiuso che restituisce in proiezione, sulla parete di quinta, una storia con le immagini e coi performer in scena e a fianco della scena.

I rimandi e gli intrecci tra elementi narrativi spuri trovano nella performance live una controparte drammaturgica intelligente e molto interessante. Il pubblico può vedere l’iterazione tra modellini e videocamera così come avviene e vagliarne il risultato sullo schermo ponderandone lo scarto.
La mitopoiesi pop (nel senso di popolare) è così al contempo performata e mostrata nel suo divenire sviscerandone la duplice competenza tecnica quella della retorica narrativa cinematografica western e quella dei tre interpreti che maneggiato immagini in sovraimpressione, schermi di smartphone usati come mini schermi nei modellini facendo della casa del titolo un feticcio concreto (modello) visivo (sullo schermo appare in tutt’altro contesto e narrativo (il racconto effettuato con la voice over sovratitolata in italiano).
Short Theatre 10 - 23 SorryUna casa una e trina: in quella originale in Pakistan si nasconde Geronimo, in quella in copia in North Carolina si esercitano i militari per l’operazione Geronimo (ma non chiamatela così) mentre una terza casa gemella è costruita in Giordania per il film The Hurt Locker di Kathryn Bigelow.

Del dipanarsi di una storia complessa e composita qui ci preme sottolineare che nel mentre del suo farsi al pubblico è chiaro come la retorica narrativa cinematografica macini storie e cancelli differenze geopolitiche e intertestuali (ci sono anche citazioni dal famoso monologo finale di Rutger Hauer da Blade Runner) sulla quale si basa la tenuta generale della macchina discorsiva filmica, la cui messa in critica non può che avvenire tramite un medium freddo come il teatro (e, per il pubblico più distratto, uno dei personaggi lo dice proprio fuori dai denti di cosa vi lamentate? è solo del cinema se volete una critica rivolgetevi al teatro).

A House in Asia riflette sui significati profondi dei media, sulla loro capacità estrema di rielaborare l’immaginario collettivo, senza trascurare gli aspetti performativi, tenendo dentro al discorso anche la ricerca artistica degli ultimi decenni.

Non si tratta però di un pastiche: ogni elemento riportato per quanto apparentemente improbabile fa riferimento a un fatto realmente accaduto. In questa documentalità non tradita sta la denuncia politica atta a riaffermare la necessità critica del pubblico che solo apparentemente questo spettacolo mette KO.

Nel rumore bianco di un surplus di informazione abbiamo solo la fiducia per credere a quel che A House In Asia ci racconta, ma ogni tessera di questo puzzle post-moderno compone un ipertesto preciso e sconvolgente nella sua veridicità nonostante l’iperbolicità tutt’altro che inventata purtroppo drammaticamente porterebbe a pensare che è facilmente verificabile, basta internet.

Short Theatre 10 - 24 MkMk ripropone E-ink il lavoro di esordio (1999) che ebbe al suo apparire una grande fortuna di pubblico e critica.

La sua riproposizione è stata sollecitata dal recente riallestimento per Aterballetto nell’ambito del progetto RIC.CI – Reconstruction Italian Contemporary Choreography, ideato e diretto da Marinella Guatterini.

La coreografia prende spunto dalle pratiche antiche dei messaggi oracolari e divinatori letti dai due danzatori come il prodotto di uno sconvolgimento psichico. La riscrittura in una continuità ritmica di ciò che per sua natura è continuamente reinventato e frainteso diventa così la coordinata di riferimento di un lavoro coreutico che vede i due danzatori lavorare all’unisono pur sviluppando ognuno una propria idiosincrasia coreutica, nello sviluppo di un movimento coordinato che scaturisce da un sommovimento interno di uguale natura, ma che affiora sulla superficie del corpo dei due performer secondo direttive diverse, personali, private, individuali e uniche.

Rivedere i due performer riprendere un lavoro di 16 anni prima (in un contesto come quello della danza dove ogni anno passato diventano tre) è l’elemento aggiunto che rende questa riproposta ancora più interessante (non a caso le foto nel programma sono quelle della perfomance originale del 1999). La durata brevissima (12 minuti) corrobora l’intensità del lavoro.

Non cedete all’inganno.

Questo Bolero effect di Cristina Rizzo è una coreografia che non si avvale delle musiche di Ravel, anzi, non potrebbe scegliere musica più lontana da quell’universo musicale.

Simone Bertuzzi allestisce un mix di musiche da ballo che tengono a stento il pubblico in sala fermo.

Su questa partitura live Rizzo e Annamaria Ajmone restituiscono quella joie de vivre scaturita dalla partitura musicale in un’esperienza ludico-coreutica che è a sua volta un mash-up di stili proprio come la musica che ne dà ritmo ed energia.

Ludico nella durata della performance (50 minuti) nei quali la forza creatrice non trova tregua, sembra inarrestabile e ripete sempre gli stessi movimenti che però appaiono ogni volta colorati di una intenzione nuova come se questa volta servano a creare un nuovo discorso coreutico che invece ritorna sempre quale a se stesso anche se mai identico.
Ed ecco che il Bolero di Ravel che la musica ha così belluinamente messo alla porta ritorna sulla scena nella sua struttura più profonda in questa ossessione crescente, in questa ripetizione mai uguale a se stessa della coreografia. Una coreografia ipnotica, essenziale, indispensabile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(13 settembre 2015)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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