Festival Internazionale del Film di Roma: le ultime parole del gaio inviato di Gaiaitalia.com

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Festival Cinema Roma 2013dal nostro inviato Alessandro Paesano  twitter@ale_paesano

Nessuna vera sorpresa tra i premi dei film in concorso dove, come in ogni festival, vengono assegnati per ragioni politiche e non solamente per la validità del film in sé (altrimenti alcuni dei premi assegnati sarebbero davvero difficili da spiegare). D’altronde il giudizio di ogni giuria è, com’è giusto che sia, insindacabile, quindi non starò a sindacarlo  esprimendo un giudizio di merito inutile e poco interessante anche per i\le fan più sfegatati\e del sottoscritto se mai ce ne sono.

Molte le sorprese invece per le altre sezioni del Festival dove, se mai qualcun* dovesse essere interessat* alla cosa, i gusti delle giurie hanno coinciso con quelli del vostro gaio inviato. Alessandro Paesano 00

Un commento non solo ai premi ma in generale a questa VIII edizione del festival Internazionale del Film di Roma, ex Festa del Cinema, vale comunque la pena di tentarlo cercando di capire l’andazzo, come si dice a Roma, cioè capire, partendo da una pletora di film scelti da chi questo festival lo fa, dunque di parte già all’inizio (un campione poco affidabile e sicuramente non esaustivo della cinematografia mondiale, come pure a un festival internazionale del film si deve chiedere) che aria tira nel mondo variegato del Film.

Il primo dato emergente più che positivo è che il documentario è in forma e riesce ancora a parlare della realtà (parola  pericolosa che ogni filosofo mi contesterebbe io la intendo come il mondo che ci sta intorno e dentro al quale viviamo).

Se n’è accorta la giura di Prospettive Doc Italia, presieduta da Marco Visalberghi e composta da Christian Carmosino, Gerardo Panichi, Giusi Santoro e Sabrina Varani,  che ha premiato un documentario interessante, ben concepito, splendidamente girato e montato: Dal profondo (Italia, 2013) di Valentina Pedicini, del quale ho avuto modo di parlarvi ampiamente.

Una menzione speciale è andata a Fuoristrada (Italia, 2013) di Elisa Amoruso, del quale parlerò prestissimo, subito dopo aver licenziato questo pezzo.

Andando a cercare al di là della sezione specifica, e uscendo anche dal panorama italiano, altri documentari, di notevole caratura, presenti nel programma del festival, sono stati Parce que j’étais peintre (Francia, 2013) di Christophe Cognet, del quale vi ho già parlato e Roland Blessée (t.l. Orlando ferito) (Francia, 2013) di Vincent Diutre del quale, pure, ho avuto modo di ragguagliarvi, presentati entrambi nella sezione cineMaxxi che non sono stati presi in considerazione dalla giuria presieduta da Larry Clark e composta da Ashim Ahluwalia, Yuri Ancarani, Laila Pakalnina e Michael Wahrmann, che ha preferito premiare il controducomentario, quel tipo di film cioè che proviene dalla video arte e riassembla delle riprese dal vero (cioè non organizzate su un set per essere riprese) in una struttura narrativa di fiction.
Una forma di film sulla quale il vostro gaio invitato ha già espresso forti dubbi e riserve, perché pretendere di stare dicendo la verità dando alla propria fiction una apparenza formale da documentario, è un’operazione ambigua, estetizzante (conta solo la forma immagine e non il suo contenuto) o, quando il contenuto conta, si pretende che quel che dice pervenga direttamente dalla realtà della ripresa e non già da chi quel film lo ha fatto.

D’altronde a una sezione del Festival i cui film sono selezionati e ospitati da chi lavora in un museo d’arte contemporanea non possiamo chiedere film diversi da quelli che vengono fatti in quest’area dell’umano (e donnano) agire.

Non ci sorprende dunque il primo premio assegnato a Nepal Forever (Russia, 2013) di Aliona Polunina che, non è un documentario né pretende di esserlo ma usa le immagini pretendendo che riescano a parlare da sé, nascondendo il lavoro di selezione e accostamento di chi quelle immagini ha ripreso.

Anche se così trasformata se l’arte si rifà alla forma documentaria (ma non alla sua funzione perché questi film documentano solo l’ego dei suoi autori, e autrici, senza fornire al pubblico delle vere informazioni, come hanno fatto invece i due documentari  francesi che ho citato prima nei quali il punto di vista personale è solo un punto di partenza per un discorso che si fa per il pubblico e non per sé) conferma quel che andiamo dicendo che il documentario  è in ottima salute ed è corteggiato anche dall’arte.

Una forma, quella del documentario,  usata anche in una smaccata finzione come nel caso del divertente The Buried Alive Videos (Israele, 2013) di Roee Rosen, del quale, pure, il vostro gaio inviato vi ha già riferito che ha ricevuto una menzione speciale.

Qualche perplessità per il premio al migliore cortometraggio,  una scelta eccentrica, nel senso letterale del termine, fuori dal centro, che è andato al corto Der Unfertige (Germania, 2013) di Jan Soldat, ancora un documentario, che sono riuscito a vedere solamente iersera, alle 23 e 30 e del quale, giocoforza, devo quindi ancora evincervi.

La fiction classica, il film inteso nel suo significato generale quello che conoscono tutti e tutte anche le vostre nonne e i vostri papà vivacchia invece in condizioni critiche.

Soffre di più in Italia che è incapace di fare dei film la cui forma narrativa corrisponde, con tutti i mutatis mutandis del caso, al romanzo (come sanno fare bene i francesi e gli Iraniani presenti al festival con Juliette e Acrid, i cui attori e attrici hanno preso collettivamente il premio per il o la migliore giovane attore o attrice emergente) mentre quando noi italiani siamo più propensi a fare dei film che hanno il repsiro della novella.
Manca al nostro cinema di fiction uno sguardo che sappia davvero arrivare alla realtà proponendo dei nuovi strumenti narrativi, di rielaborazione e analisi, continuando a usare quelli delle fiction televisive (semplificazione, standardizzazione, ricerca del pittoresco, o, al contrario, del sordido) anche quando si vuole raccontare storie importanti facendo rimpiangere non solo il film d’autore di una volta (sarebbe anche ingiusto paragonare Veronesi ad Antonioni, ingiusto per Antonioni beninteso) ma anche le commedie all’italiana. Basta pensare a film commerciali come Il Vedovo (Italia, 1959) o Una vita difficile (Italia, 1961) entrambi di Dino Risi per far cadere come un castello di carte L’ultima ruota del carro (Italia, 2013) di Veronesi o Il mondo fino in fondo (Italia, 2013) di Alessandro Lunardelli il primo che vuole raccontarci gli ultimi trent’anni della nostra storia in una epopea familiare ben girata ben recitata ma dallo sguardo superficiale, il secondo che si inventa un personaggio gay non stereotipizzato e poi se ne dimentica parlando d’altro…

Il personaggio gay. Già.

Permettetemi una digressione, d’altronde sono o non sono il vostro inviato gaio? Diversi film di questo festival sono dedicati a personaggi gay o queer.
Da Dallas Buyers Club (Usa, 2013) di Jean-Marc Vallée, che ha ricevuto diversi premi collaterali Iil premio Farfalla d’ooro Agiscuola; Premio AIC miglior fotografia, questo davvero inspiegabile, che vede il bel Jared Leto interpretare un travestito ed è pieno di ragazzi e uomini omosessuali, tutti sieropositivi, al film di Lunardelli testé citato, dal documentario  Der Unfertige di Jan Soldat che parla di un sessantenne gay al quale piace fare lo schiavo, a Fuoristrada (Italia, 2013) di Elisa Amoruso che racconta di Beatrice, la rinascita al femminile del meccanico Pino, le omosessualità o, più in generale, l’identità e l’orientamento sessuale non etero sono confinati in film a loro direttamente dedicati.

Nel resto dei film del Festival, naturalmente parliamo di quelli che abbiamo visto, tranne il documentario Roland Blessé, di Vincent Diutre che è omosessuale e dunque l’omosessualità entra nel film come coordinata della propria cifra artistica e esistenziale, e lo splendido色骨 traslitterato in Lanse Gutou (t.l. Ossa blu) (Cina, 2013) di Cui Jian il quale ha ricevuto una menzione speciale per il film, nel quale il padre del protagonista ha avuto un amore di gioventù con un ragazzo, non ci sono personaggi lgbt. Sono film ciechi agli orientamenti e alle identità sessuali non etero come non è mai successo prima al festival.

Non fraintendete il vostro gaio invitato, la mia non è una richiesta à la angeli negri di Fausto Leali, mettete un angelo gay nei vostri film, ma la mera constatazione che se i film guardano alla realtà dovrebbero vederla in tutte le sue forme e le sue varietà comprese le non eterosessualità che mai come nei film di quest’anno (compresi quelli più artistici e sperimentali della sezione CineMAxxi) si è dimostrata invece straight (che in inglese non significa solamente etero ma anche conservatore, ed è chiaro il perché).

Gay, lesbiche, bisex, queer e trans popolano la società ma per i film da me visti al Festival no…

Senza voler fare dietrologie mi sembra più una firma dei selezionatori e delle selezionatrici che una caratteristica dei film in sé, in piena linea col Paese che rimane ancora rigorosamente omofobo il cui massimo sforzo è la tolleranza o il film dedicato, come per le minoranze etniche… (non a caso anche il premio del pubblico è andato  Dallas Buyers Club perché si sa che il gay poverino soffre tanto e poi muore…. Cazzo vi ho svelato il finale!)

Se vogliamo davvero passare dall’accettazione (che sa tanto di grazia ricevuta) all’essere solidali bisogna che nei film ci siano tutti e tutte…

Perché anche quando si fa mero intrattenimento (e non c’è niente di male in questo) il cinema è un potente strumento di rielaborazione del nostro immaginario collettivo un sottile mezzo di (auto)rappresentazione  tramite il quale pensare al nostro presente valorizzando, recuperando e sostenendo la memoria storica.

Succede in tanti film del festival. Dalla Vida Invisiviel (Portogallo, 2013) di Vìtor Gonçalves a Entre nos (Brasile, 2013) di Paulo e Pedro Morelli, il cinema può, e deve, interrogarsi sul nostro posto nel mondo e aiutarci a riflettere come muoverci nella vita alla quale dobbiamo tornare per non usare la sala cinematografica come un rifugio, una cattedrale buia  e baluginosa dove nascondersi come il film di Gonçalves ci ricorda nell’assolvenza verso il bianco con cui si conclude. Certo detto da chi per gli scorsi 10 giorni ha praticamente vissuto dentro le sale cinematografiche…

La rielaborazione del nostro immaginario collettivo da fare magari con con autoironia è un po’ la grande assente di questo Festival. Tranne alcune produzioni asiatiche Om Dar-Ba-Dar (India, 1988) di Kamal Swaroop o del vicino oriente The Buried Alive Videos (Israele, 2013) del geniale Roee Rosen  nemmeno le commedie si sottraggono a una seriosità in alcuni casi portata sino all’eccesso come dire non proprio un antidoto ma il veleno finale a una retorica della disfatta che sembra dare forma e senso a questo periodo di crisi generale.

Per seguire le parole  di George Didi-Huberman andiamo a cercare i film che invece di arrendersi alla catastrofe si fanno testimoni di una speranza oggi da difendere e coltivare più che mai. Oltre al Roland Blessée da cui questa citazione è tratta, sicuramente Zanji Revolution, di Tariq Teguia (Algeria\Francia\Libano\Qatar, 2013) nel quale le lotte algerinE contemporanee si uniscono a quelle della Grecia e idealmente a quelle degli Zanji e anche Entre Nos, A Vida Invisiviel nei quali nonostante un evento catastrofico si faccia ancora sentire come eco di pura disperazione si mostra come si può (si deve?) reagire e  continuare a vivere. Banale ma vero.

E prima di chiedere vorrei dare un suggerimento a Gabriele Salvatores che ha firmato la pessima sigla della Sezione di Alice nella città.

Caro Gabriele, lo so che volevi fare un omaggio carino alle cotte adolescenziali, squisitamente etero e canonicamente sessiste dove lui si sdilinquisce di voglia e lei cattiva non se lo fila ma gi lascia qualche speranza disegnando faccine col sorriso sul quaderno (invece di scrivere appunti della lezione).

I nostri ragazzi e le nostre ragazze già a quell’età che per te è l’età dell’innocenza e del dolce far niente, vivono già delle vite piene di impegni gi a scuola. Per sottoleinare come lui fosse innamorato di lei avresti potuto ritrarre la ragazzina non nel suo banco a disgenar faccine, ma intenta a fare una bella interrogazione alal cattedra (mentre lui si sdilinquiva dal banco) opure una bella performance nell’ora di Ginanstica (magari in un sporto sessisticamente pensato solo per i maschi) mentre lui si sdilinquiva nel pubblico, oppure a organizzare una manifestazione di solidarietà o un collettivo di classe dove lui si sdilinquiva tra i partecipanti. Insomma farli agire nel mondo e non metterli tra parentesi in una immagine adolescenziale di innocenza che è priva di ogni azione che ha minimamente un senso (le faccine disegnate nel quaderno!?!?! Nel 2013?!?!?!) invece del tuo spot paternalistico e fintamente carino. Anche questo dà il senso di come il Paese guarda alale nuove generazione del peso in cui le tiene in considerazione. Oppure voi di Alice potevate rifiutare questo orrore invece di rendervi complici di questa retorica da libro cuore (con tutto il rispetto per De Amicis)  fuori dal mondo  e, soprattutto, fuori dalle scuole.

Un’altra edizione si chiude, oggi le ultime proiezioni, tutte repliche,  sperando di arrivare alla IX non solo perché oggi ci siamo e domani chissà, ma perché, come ogni anno, di questo Festival poco amato dall’Intellighenzia e anche dai colleghi e dalle colleghe che vengono a scriverne ma sotto sotto godono di ogni suo difetto e inefficienza, molto amato e frequentato dal pubblico (quest’anno ci è parso più di quello precedente) anche stavolta si vocifera che tanto l’anno prossimo non si fa.

Ecco, se il festival è sopravvissuto ad anni di previsioni così catastrofiche volete che non sopravviviamo noi, uomini  e donne dello stivale?

Stay tuned per gli ultimi resoconti sui film visti ieri e su quelli che vedrò oggi (sono non solo gaio ma anche ingordo).

Per il resto buona Domenica dal vostro gaio inviato!

 

 

 

 

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